L’esito della vicenda che ha visto sul ring delle Olimpiadi di Parigi Imane Khelif, pugile algerina a sfidare l’italiana Angela Carini, molto racconta del piccino costume razzista e insieme omofobo dello Stivale sportivo strapaesano. I fatti: Angela Carini, dopo pochissimi istanti dall’inizio dell’incontro, ricevuto un colpo al naso, decide irritualmente di fermarsi, raggiunge l’angolo e, rivolta al commissario tecnico, pronuncia il primo atto di un copione vittimistico che la renderà, in un altrettanto breve lasso di tempo, se non proprio campionessa, di sicuro beniamina vincente nel cuore di Giorgia Meloni e di Ignazio La Russa.
A loro volta, come molta “plebe” social, convinti che l’incontro non “s’ha da fare” per asimmetria legata al genere. Assai probabilmente l’algerina Imane, anche ai loro occhi di irreprensibili coltivatori diretti delle suggestioni populistiche, nonostante i rispettivi ruoli istituzionali, è in verità un “maschio”. “Non è giusto! Fa malissimo!”, piagnucola l’italiana. La sensazione che si tratti di un’esclamazione impropria, fasulla, soprattutto se pronunciata dalla prospettiva professionistica del ring, è comprensibile. L’incontro poi continua, dieci secondi appena, nulla di più. Finché la nostra connazionale torna nuovamente all’angolo e accorata sentenzia: “Non è giusto!”. Sceglie infine di ritirarsi. Si inginocchia al centro della scena. Inutilmente, sportivamente, Imane Khelif prova a consolarla. L’italiana va poi via senza rispondere al saluto dell’algerina. Quando i cronisti provano a domandarle le ragioni della reazione non risponde. Il c.t. Renzini trova per lei alcune parole: “Angela aveva già male ai denti, era sotto antibiotici, ha preso un colpo al naso, ha sentito dolore…”.
Un istante dopo però completa il pensiero che trasfigura l’incontro in caso politico: “Si è messa in moto la macchina dei social. Tutta l’Italia pugilistica le ha chiesto di ritirarsi. Tutta. I politici sentono dire che una donna deve battersi con un uomo, e fanno i loro commenti”. Adesso Angela Carini, volto alle telecamere, scoppia a piangere, consegnando infine così: “Ho il cuore spezzato, ma la testa alta. Ho combattuto”. Le fanno notare che non è esattamente vero. E lei: “Ho scavalcato le corde del ring. Ho provato a combattere. Se Dio e mio padre hanno voluto così, allora va bene così. Il ring è la mia vita. Non ho mai avuto paura e non ne avevo oggi. Ma sono una pugile molto istintiva, e mi sono detta subito: qualcosa non va. Ho sentito quel colpo. Mi ha fatto male. Molto male. Non riuscivo più a respirare. Ho guardato mio fratello in tribuna. E mi sono detta: basta”.
La sacra famiglia è così evocata: “papà” e “fratello”; altre lacrime a compendio della scelta, sofferta, meglio, vittimistica. L’algerina Imane descritta presto come “una donna affetta da iperandrogenismo, che alza il testosterone a un livello che la federazione di boxe ha ritenuto eccessivo, e che il Comitato olimpico ha ritenuto compatibile; per cui può gareggiare con le altre donne”. Un cronista decisamente turco, altrettanto puntiglioso, domanda: “Ma ha il pisello?” Irrilevante a quel punto precisare che Imane non è neppure un transessuale, a differenza di quel che è stato scritto e propalato. I suoi follower non dello stesso avviso, l’avevano perfino “cristianamente” implorata di non raggiungere il ring: “Angela boicotta l’incontro, fermatevi in tempo”; “Angela devi combattere con un uomo, vergogna”; “Angela demolisci quel trans, per favore!”. Imane Khelif, pugile professionista d’Algeria, è femmina. Il resto solo vandea subculturale. Chi dovesse sostenere il contrario probabilmente sa di mistificare, lo fa però volentieri. Magari orgogliosamente pago d’appartenere a un’orda politicamente razzista, fascistoide, omofobica. Riassume così la peggiore narrazione, non meno sessuofobica e regressiva che potessimo immaginare al tempo di Trump e Putin, e lo fa in modo interessato.
Irricevibili i commenti da sottoscala di coloro che deridono la “femminilità” di Imane, reputandola, appunto, inattendibile, caricaturale, persona degna delle illustrazioni care alle gazzelle nate al tempo delle leggi razziali promulgate dai nazifascisti: i tratti somatici degli ebrei, gente sgradita, mostrati prossimi al deforme, al mostruoso; così avveniva sul foglio razzista di Telesio Interlandi: “La difesa della razza”, appunto. Di Imane, boxeur femmina, atleta della nazionale algerina attualmente ospite delle Olimpiadi di Parigi, brilla su tutto la volontà, la perseveranza, la determinazione d’esserci sul ring, nel perimetro ufficiale dello sport, al di là d’ogni altrui meschina considerazione sulla mappa cromosomica che ne riguardi la persona. Le lacrime di Angela Carini, in questo esatto istante innalzata come incolpevole vittima della subcultura woke dalla piccineria rionale della destra, sollecitata direttamente da Giorgia Meloni, Matteo Salvini e ancora da Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, risultano altrettanto ignobilmente irricevibili, espressione del peggiore strapaese sportivo italico, da affiancare all’immagine di Angela Carini che invoca “papà” tra i singhiozzi, melodramma familiare proprio del più desolante populismo.
La gretta Italietta che si riconosce e fa proprie come reliquia le lacrime di Angela Carini, ripeto, lì a invocare proprio “papà”, è simmetrica all’ottusa nazione fascistoide omofoba, l’Italia vittimista, proprio come la Meloni. Tecnica populista, ha spiegato un tempo Ennio Flaiano, restituendo certa modalità identitaria del fascismo: attribuire sempre agli altri la colpa della propria mediocrità, dei propri fallimenti. Sia detto per la cronaca, Imane Khelif non è imbattibile, al contrario, nelle scorse Olimpiadi, è stata più volte sconfitta, descriverla in modo osceno come fosse Primo Carnera transgender o piuttosto Godzilla testimonial dell’abominio non meno trans o ancora un’emula di Mark Tyson pronta a mordere l’avversario è cosa miserabili. Chi attualmente cavalca l’intera vicenda indicandola ad esempio dell’ennesimo abominio della dittatura LGBTQIA+ risponde, si sappia anche questo, alla subcultura della destra regressiva diffusa, che intravede ogni male dinanzi all’esistenza stessa d’ogni questione di genere. Alla fine della storia, non resta che sollevare il pugno chiuso, alzarsi in piedi e gridare a voce piena: Forza Algeria!
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