lunedì 25 giugno 2012

POLITICA E MINORANZE. PANARARI E MOTTA, Sono le minoranze il sale della democrazia, LA STAMPA, 25 giugno 2012

Dai galileisti del '600 ai giacobini del '700 ai socialisti riformisti
dell'800 alle varie famiglie del liberalismo progressivo del '900: in un libro di Panarari e Motta le occasioni mancate dell'Italia

MASSIMILIANO PANARARI, FRANCO MOTTA
Si intitola Elogio delle minoranze , sottotitolo Le occasioni mancate dell’Italia , il libro di Massimiliano Panarari e Franco Motta in uscita per Marsilio (pp. 221, € 16), di cui anticipiamo qui uno stralcio della postilla conclusiva. Il volume è un viaggio attraverso i secoli, dagli eretici del Cinquecento al liberalismo avanzato del Novecento, alla riscoperta di quelle minoranze che sono state finora sottratte al patrimonio condiviso dell’identità nazionale. Panarari, collaboratore della Stampa , insegna Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia e Marketing politico alla Luiss di Roma. Motta è ricercatore di Storia moderna all’Università di Torino.

La dinamica di desertificazione e spappolamento dei ceti medi è diventata particolarmente eclatante in Italia, dove le classi medie, nucleo sociale delle minoranze civiche, non hanno (praticamente) mai trovato un terreno di coltura o una sponda istituzionale a loro confacente e favorevole. Ancor più lungo gli scorsi decenni, nei quali, per parafrasare lo storico Tony Judt che constatava come la Gran Bretagna fosse diventata meno elitaria e meno populista, l’Italia si è svegliata, al contempo, maggiormente elitaria e più populista (ma meno elitista, nell’accezione positiva qui descritta), anche sotto il profilo degli stili di vita e dei consumi culturali.
C’è, quindi, bisogno di nuove minoranze e di élites che non siano ciniche, né «indecise», ma capaci di praticare una meritocrazia autentica, che non è (e non deve essere, come paventano alcuni) uno «strumento di classe» e di perpetuazione dello status quo, ma l’interruttore per far ripartire il preziosissimo e irrinunciabile ascensore sociale, senza il quale una nazione muore.

È il tema, ben conosciuto, della circolazione e del ricambio delle élites. Élites democratiche, permeabili e inclusive - e non fondate sull’appartenenza di casta, sulla cristallizzazione dei privilegi o sulla cooptazione al ribasso - realizzano, all’interno di una società aperta, le condizioni dell’uguaglianza.

Al riguardo, il problema di fondo, e in maniera estremamente acuta da noi, rimane sempre sostanzialmente lo stesso. Ovvero la legittimazione (e la rappresentatività) di chi esercita un ruolo di direzione; una questione che si è accentuata nel corso di questi ultimi anni, e che ha visto la classe dirigente della politica trascinata (spesso, e per una parte rilevante di essa, molto a ragion veduta) sul banco degli imputati. Ne deriva l’esigenza - non ulteriormente differibile - di sviluppare processi di autentica selezione dei più meritevoli, che permettano di rilevare e valorizzare le capacità, in primis, dei soggetti esclusi - dai giovani alle donne, ai «nuovi italiani» che possono costituire, da questo punto di vista, una speranza - confinati fuori dai luoghi decisionali da un potere di tipo molto tradizionale e dalle consorterie che troppo spesso gli si stringono a coorte.

Di élites un corpo sociale e una nazione hanno bisogno, e il loro rigetto si tinge, di frequente, di accenti rabbiosi provenienti da settori politico-culturali intessuti di sentimenti e fobie che con la democrazia c’entrano ben poco. Le minoranze civili costituiscono precisamente un argine e un antidoto indispensabile al populismo. Perché, come malauguratamente non è abbastanza chiaro a tutti, la democrazia non coincide con il populismo - e quindi rigettiamo serenamente al mittente le accuse, che pare già di sentire, riguardo l’antidemocraticità di queste tesi. Noi rivendichiamo con forza l’antipopulismo come componente di ogni dottrina e pensiero democratici. Analogamente a quanto facciamo con il «mecenatismo», volto a sostenere la cultura e gli individui capaci, che dovrebbe costituire un imperativo etico per i poteri pubblici e le istituzioni, ma di cui, in momenti di crisi fiscale e di disorientamento valoriale come l’attuale, potrebbero e dovrebbero, giustappunto, farsi carico le élites.

All’interno di una democrazia liberale, riteniamo che il ruolo dirigente delle élites risulti irrinunciabile - e, perciò, rileviamo come un errore la diffidenza e la disattenzione nei riguardi di questa problematica così delicata di larga parte della sinistra e del mondo progressista. Altrimenti, visto che il vuoto in politica e nelle faccende di potere non esiste, si lascia che a colmarlo, come avviene in questa fase, siano certe oligarchie del denaro che avvertono i valori democratici come fardelli o lacciuoli di cui sbarazzarsi. L’unico antidoto efficace, insieme alla mobilitazione democratica degli individui e al loro coinvolgimento nella vita pubblica, coincide precisamente con delle élites testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile. E dotate di quella credibilità e autorevolezza che, sola, può garantire, in via esclusiva, la piena accettazione della loro condizione speciale da parte della cittadinanza.

Nel passato ne abbiamo avute diverse - e sono quelle che qui vengono raccontate: gli eretici del Cinquecento; i galileisti del Seicento; i giacobini del Settecento; i positivisti, gli igienisti e i socialisti riformisti e cooperativi dell’Ottocento; le varie famiglie del liberalismo progressivo e avanzato del Novecento. Tenere viva la loro memoria è, dunque, un esercizio utile anche per il tempo presente.

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