domenica 21 ottobre 2012

ITALIA. VERSO LE ELEZIONI. MATTEO RENZI E IL PD. SCURATI A., Ecco perchè non voto per il sindaco di Firenze, LA STAMPA, 18 ottobre 2012


Trenta ottobre duemilaundici, stazione Leopolda di Firenze, Big Bang di Matteo Renzi.
Sono arrivato all’ultimo momento, un po’ trafelato, appena sceso dal treno. Sono qui mosso da curiosità umana e intellettuale nei confronti di questo giovane uomo politico che annuncia di voler rinnovare la politica e, soprattutto, nei confronti della sua gente che, lo spero vivamente, possa essere la «mia gente».

Affido la valigia a qualcuno e attendo nel back stage che venga il mio turno.


Docente e ricercatore all'Università Statale di Bergamo, coordina il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza. Sempre presso l'Università Statale di Bergamo insegna Teorie e tecniche del linguaggio televisivo. Nel 2005 Scurati diviene Ricercatore in Cinema, Fotografia, Televisione. Nel 2008 si trasferisce alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, dove svolge l'attività di ricercatore e docente titolare nell'ambito del Laboratorio di Scrittura Creativa e del Laboratorio di Oralità e Retorica.
Ha pubblicato il saggio Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale (2003, finalista al Premio Viareggio).
Il suo romanzo Il sopravvissuto (Bompiani, (2005) ha vinto (ad ex aequo) la XLIII edizione del Premio Campiello.




Prima di me sale sul palco un giovane regista assurto a popolarità e successo (la fama è un’altra cosa) adattando per il grande schermo un romanzo di Moccia. Vabbè, andiamo avanti. Ora tocca a me. Abbiamo tre minuti per dire cosa faremmo nei primi quindici minuti di governo se divenissimo il Presidente del Consiglio. Tre minuti per dire i quindici minuti di tutta una vita. Proviamo. Salgo e dico la mia. Dico che mi chiuderei a chiave e raddoppierei di netto gli investimenti italiani in istruzione e ricerca. Dico che un Paese come l’Italia o è la sua grande cultura oppure non è niente. Applausi. Applausi gratificanti ma moderati. Niente di fragoroso. Non è questo discorso che scalderà questa platea. O, comunque, non è questo uomo. Benissimo, ho detto la mia. Scendo dal palco e ascolto. Tra meno di mezz’ora parlerà Renzi, l’uomo che forse la mia generazione stava aspettando invecchiando nella sua attesa.

Parla Luigi Zingales. Tiene un bel discorso sull’importanza anche economica di rimettere al centro il criterio del merito. Sottoscrivo. Applaudo. Parla qualcun altro. Condivido e mi dispongo al buon umore. Poi sale sul palco Giorgio Gori. La mia curiosità si accende. Non lo conosco personalmente ma la mia generazione ha avuto il suo apprendistato all’irrealtà televisiva della vita attraverso le reti da lui dirette. Sono quasi emozionato: per un attimo spero che stia per consumarsi l’esame di coscienza di una Nazione. Accade, invece, qualcosa di surreale. Ascolto con queste orecchie Giorgio Gori, già responsabile delle tre reti del gruppo Mediaset grazie al quale Berlusconi ha plasmato l’immaginario italiano, lamentare con toni accorati «il degrado culturale del nostro Paese». Lo ascolto dirsi pronto a riformare la Rai, ascolto l’uomo che ha dato all’Italia «Il Grande fratello» e «L’isola dei famosi» protestare la servitù morale della Patria quasi fosse un eroe risorgimentale. Lo ascolto sempre più emozionato perché mi dico adesso viene il momento, adesso fa autocritica, rinnega il suo passato, si cosparge il capo di cenere. Poi potremo tutti assieme ripartire. Ma quel momento non viene. L’attesa è delusa. Il nostro scopo mancato. Sono le 12 e 45. Gori, come se nulla fosse, cede la parola a Renzi. Lo fa da padrone di casa. Siamo ancora nella casa del Grande Fratello.

E’ stato in quel momento preciso che ho smesso di ascoltare. Ieri, su questo stesso giornale – che è anche il «mio» giornale – mi è stata attribuita l’intenzione di voler votare per Renzi. Attribuzione infondata. Ed eccomi, dunque, qui a scrivere queste righe. Perché? Non per correggere una notizia errata (la mia intenzione di voto è socialmente irrilevante) ma per dire una delusione e proporre un ragionamento elementare. Eccolo: il declino economico, politico e morale dell’Italia è figlio di un degrado culturale. L’impoverimento materiale, l’immoralismo dilagante, la bassezza gaudente e impotente del potere s’irradiano fino a noi da quegli Anni Ottanta durati trent’anni che già allora brillavano della luce equivoca di un diamante ricettato. Gli Anni Ottanta sono finiti ieri. La sottocultura televisiva imposta da quel decennio trentennale – non la televisione in quanto tale – è stata l’autobiografia di una Nazione divenuta succube del proprio lugubre edonismo. Se vogliamo davvero voltare pagina, dobbiamo chiudere i conti con quegli anni e con i loro uomini. La generazione che risolleverà l’Italia sarà una generazione culturale, non anagrafica. Donne e uomini, di qualsiasi età, che praticheranno una diversa idea di mondo. Non vale l’argomento secondo il quale Gori sarebbe solo un consulente per la comunicazione. Per gli uomini di quegli anni, che ci vorremmo lasciare alle spalle, la comunicazione è stata tutto. E non ne faccio un caso personale nei confronti di Giorgio Gori. Renzi, se dovesse riuscire nella sua impresa, rappresenterà non delle singole persone ma un’intera generazione troppo a lungo delusa. Proprio per questo motivo, il fatto che il sindaco di Firenze non sembri avere molte idee sue potrebbe essere addirittura un bene. Potrebbe fare di lui un diapason, potrebbe farlo vibrare di risonanze finora inaudite. La sua nota di rinnovamento è sacrosanta, la guerra che gli muovono meschina. Ma se suonerà la musica della continuità culturale non potrà che prolungare la nostra attesa.

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