mercoledì 28 novembre 2012

INDIA. INDUSTRIA DELL'ABBIGLIAMENTO E SFRUTTAMENTO. MARINA FORTI, L'incubo in un vestito cucito, IL MANIFESTO, 27 novembre 2012


Viaggio a Bommanahalli, il distretto industriale specializzato nel tessile alla periferia di Bangalore. Le lavoratrici raccontano stipendi bassissimi, poco cibo, maltrattamenti e disagi fisici



I cancelli della fabbrica si aprono alle 16,30 in punto, e le operaie cominciano a uscire a gruppetti. Molte sono giovanissime, sembrano adolescenti. Si avviano lungo la strada che costeggia altri capannoni e stabilimenti, verso casa - o verso l'ostello aziendale. Bommanahalli è un distretto industriale alla periferia di Bangalore, India meridionale, e sembra lontano mille miglia dai suburbi hi-tech che danno lustro internazionale a questa città, gli istituti di ricerca, parchi tecnologici e cittadelle informatiche. Anche questo però è un pezzo di economia globalizzata, perché fabbriche e fabbrichette qui formano uno dei maggiori «hub» dell'industria tessile e dell'abbigliamento del paese: e non è un settore da poco, perché l'India risulta il terzo esportatore mondiale di tessili e sesto di abbigliamento, con i paesi europei e gli Stati uniti come primi clienti.
Lasciamo la statale bordata di concessionarie di auto, officine, negozi di quasi ogni possibile bene industriale, ferramenta, drogherie, telefonini, bancarelle. Imboccare una strada bordata di capannoni e fabbriche. A volte sono piccole officine, stanzoni pieni di macchine da cucire. Altri sono grandi stabilimenti. Stradine laterali si addentrano nell'abitato, denso, case basse di cui ogni famiglia occupa una stanza aperta su un ballatoio, piccoli negozi, qua e là mucchi di spazzatura su cui rumina placida una mucca. O dormitori come quello verso cui si dirigono le donne appena uscite dalla Shahi, unità 14: più presto del solito, spiegano, perché è domenica e per gentile concessione dell'azienda oggi non hanno fatto straordinari.
Sono restìe a fermarsi, ci sono sempre i sorveglianti in giro e loro hanno istruzione di non parlare con sindacalisti, ispettori e altri estranei. Ma siamo distanti dal cancelli e alla fine il desiderio di parlare prevale. Gayatri, poco meno che ventenne viene da una cittadina rurale di questo stato, il Karnataka, e prende 4.000 rupie al mese (circa 62 euro). Alloggia nel dormitorio aziendale, manda soldi a casa, ha due o tre giorni di permesso ogni due mesi; altrimenti lavora 7 giorni su sette, come tutte. Ha un bel sorriso vivace e azzarda qualche frase in inglese: prima di andare in fabbrica era andata a scuola, ma in famiglia serviva il suo reddito. Altre vengono da più lontano, dai confinanti stati di Tamil Nadu a sud, Madhya Pradesh a nord. Donne più grandi, con figli e famiglia, prendono 4.500 rupie di salario mensile, e metà vanno per l'affitto di casa. Bibi mostra il suo cartellino di riconoscimento aziendale: c'è scritto helper, aiutante, cioè operaia non qualificata; lei però è una stiratrice e le spetterebbero quasi duemila rupie di più al mese. E sarebbe ancora un salario da fame, dice: «L'affitto della stanza aumenta ogni pochi mesi, anche il cibo continua a rincarare, solo i salari sono fermi».
Visito Bommanahalli dopo aver partecipato a un «Tribunale popolare nazionale sul giusto salario come diritto fondamentale dei lavoratori dell'industria dell'abbigliamento», che per tre giorni ha riunito a Bangalore dirigenti e attivisti sindacali e di altre organizzazioni popolari, esperti, giuristi, accademici (vedi qui accanto). Soprattutto, ad affollare l'accogliente salone di un vecchio centro culturale nel cuore della città c'erano decine di lavoratrici e lavoratori venuti dai maggiori centri industriali indiani: da Gurgaon, una delle «new town» sorte attorno a New Delhi; da Tiruppur, cittadina del meridionale Tamil Nadu che nessuno sentirà mai citare ma è il più grande hub del tessile indiano, oltre che da qui, Bommanahalli. Un'assemblea multilingue con traduzione simultanea da e in hindi, kannada, tamil. Le loro testimonianze sono state l'elemento chiave del «tribunale popolare».
«Lavoriamo trattati come bestiame»Testimonianze impressionanti, perché hanno descritto un livello di sfruttamento che ricorda i primi tempi della rivoluzione industriale. I salari da fame appena citati sono comuni: pochi arrivano a 5.000 o 5.500 rupie, l'equivalente di 80, 85 euro. Non si dica che la somma va riferita al potere d'acquisto locale: «Dopo aver pagato l'affitto, il latte per i bambini, l'elettricità, l'acqua non resta nulla. Spesso devo chiedere prestiti» ha spiegato Rehana Basu, operaia di Bommanahalli-Bangalore. Se qualcuno si ammala è la fine. Sakamma, operaia a Bangalore, quando esce dalla fabbrica va a fare la domestica per un paio d'ore; altre sue colleghe per arrangiarsi «preparano papad (frittelle vendute per strada, ndr), fanno lavoretti di cucito, ghirlande di fiori, arrotolano bidi», le sigarette indiane. Per loro la giornata comincia alle 4,30 o alle 5: preparare colazione e pranzo, ripulire casa, poi la fabbrica, poi il lavoro extra, poi ancora rigovernare casa. «Non ci possiamo permettere cibo nutriente, né i vestiti che cuciamo. Abbiamo continui problemi di salute, dolori all'utero, male alle ossa, asma», dice Sakamma: «Quanto può sopportare una donna?».
Gli straordinari sono la norma: sia per arrotondare il salario, sia perché rifiutarsi significa perdere il lavoro: «Se non ci stai ti buttano fuori. L'azienda ci tratta come schiavi», dice furente un operaio di Gurgaon, che passa spesso 12 ore in fabbrica. Tutti parlano di wage theft, furto sul salario: trattenute arbitrarie, spesso senza alcuna spiegazione, salari pagati in ritardo, aumenti non riconosciuti. O il trucco di non riconoscere la qualifica del lavoratore. Gli straordinari andrebbero pagati al doppio della paga oraria, ma è rarissimo che avvenga.
Le testimonianze sembrano un solo racconto a più voci. Un incubo comune sono i target: «Ti dicono di cucire 80 pezzi in un'ora. Se ce la fai, l'ora successiva te ne danno cento, poi 120, 150. Il target aumenta sempre», ha detto Kammalamma, operaia a Bangalore. «Non c'è un singolo giorno in cui riesci a completare il tuo target nelle otto ore regolari». Molte sono arrivate al punto di saltare la pausa pranzo, o di non bere acqua durante il giorno così non dovranno andare alla toilette. Stessa pressione sugli operai di Gurgaon, che spesso restano in fabbrica fino alle 23 o mezzanotte. Uno di loro, Aksay Kumar, riassume: «Lavori come una macchina e ti senti una macchina».
Altri abusi emergono. Le molestie sessuali sono esperienza comune di molte giovani donne. Maltrattamenti continui: i capireparto urlano insulti a chi è indietro col lavoro, a chi arriva qualche minuto in ritardo, a chi chiede un giorno di permesso. «Ci urlano: cane, animale. Ci trattano come il bestiame». Donne lasciate in piedi per ore nel gabbiotto del capo per punizione.
Capetti che tirano oggetti o pezze di stoffa in faccia all'operaio che non si affretta abbastanza. Operaie e operai malmenati. Umiliazioni continue. E poi, ritorsioni verso coloro che accennano ad attività sindacali, fino a mandare squadre di picchiatori a malmenare e intimidire chi alza la testa.
La finzione dei «codici di condotta» Le testimonianze descrivono un lavoro sempre più precario. Le aziende assumono e buttano fuori secondo le commesse che ricevono. I contratti a termine sono sempre più diffusi. O il lavoro senza neppure un regolare contratto, e senza il cartellino di riconoscimento: lavoratori che non compaiono in nessun registro, invisibili alle autorità. Senza contratto né tesserina, quindi residenza, i migranti non potranno accedere agli alimentari a prezzo calmierato del sistema pubblico di distribuzione, né rivendicare altri servizi. E tutti i poli industriali chiamano migranti: a Gurgaon (New Delhi) da tutta la piana del Gange, a Bangalore da tutto il centrosud. Di solito arrivano attraverso intermediari, reclutatori che prendono una percentuale dal lavoratore a cui procurano il posto e dall'azienda cui procurano manodopera.
Un «tribunale», benché popolare, ascolta tutte le parti in causa. A quello di Bangalore hanno accettato di partecipare i rappresentanti di H&M, marca nota in nord Europa che fa confezionare i suoi abiti in diversi paesi asiatici. Armati di powerpoint, il magager per l'India Niklas Klingh e il responsabile per la «sostenibilità» Tobias Fisher hanno spiegato che l'azienda ha 94mila dipendenti, ha una rete di punti di vendita, ma non ha fabbriche proprie: ha solo «fornitori». Se le operaie della Sashi 14 hanno da ridire, è con il loro padrone che devono prendersela. La H&M però ha un codice di condotta ispirato ai principi dettati dall'Organizzazione internazionale del lavoro - e a suo credito va detto che è l'unica tre le numerose aziende invitate, indiane o multinazionali, che abbia accettato di partecipare al confronto. Nel 2012 l'azienda scandinava ha fatto 250 ispezioni presso i suoi «fornitori», a sorpresa, e ha constatato che il 97% si attiene alle norme sul salario minimo.
Davanti ai cancelli della Sashi, «fornitore» di H&M, la dirigente sindacale che mi accompagna spiega che questa azienda si pretende il miglior datore di lavoro del settore in tutta l'Asia: infatti i suoi salari sono superiori (di un paio di rupie) a quello minimo di legge, «che però segna la soglia di povertà». Insomma, restano salari da fame. I dirigenti scandinavi si erano schermiti, quando a interrogarli sono state le operaie: noi controlliamo che le regole locali siano applicate. Rehana Begum non è convinta: «Macché, quando vengono i vostri ispettori in fabbrica ripuliscono tutto, ci danno l'acqua da bere, sono gentili». Continua: «Noi vi diamo abiti ben fatti, buona qualità, e voi li vendete bene, ma il nostro salario resta cinquemila rupie: perché non potere dire ai padroni di pagarci meglio?». 

Nessun commento:

Posta un commento