giovedì 28 giugno 2018

BERLUSCONISMO, POPULISMO, NARCISISMO. UN SAGGIO DI G. FONTANA (La velocità del buio). M. T. GRILLO, LAVOROCULTURALE.ORG, 28 giugno 2012

Giorgio Fontana è laureato in filosofia, vive a Milano e ha trent’anni. Da trentenne si guarda intorno, ma soprattutto alle spalle, come chi sa di non poter rimpiangere nulla, perché la sua maturità “è cominciata con una crisi”. E da filosofo ha scritto La velocità del buio (176 pagine, 16 euro, Editrice Zona), un libro che dal titolo potrebbe sembrare un thriller psicologico, ma che in realtà è, come lui stesso lo definisce, “un saggio su berlusconismo, crisi degli ultimi vent’anni e identità italiana – ma non solo”.
http://www.lavoroculturale.org/il-berlusconismo-non-si-ammazza-con-una-pallottola/


Silvio Berlusconi costituisce un dato di fatto drammatico non in quanto singolo individuo, ma in quanto rappresentazione e realizzazione di una degenerazione politica e culturale. Questo è ormai assodato, e non basta il felice risultato della consultazione referendaria per decretarne la fine. Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una frase di Giorgio Gaber: “Io non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”. Ecco, Fontana indaga il Berlusconi in agguato in ognuno di noi: nel pressappochismo quotidiano, nell’edonismo deresponsabilizzato, nell’egoismo narcisistico. Applicando la massima einsteniana secondo la quale non c’è nulla di più pratico di una buona teoria, Fontana si chiede a cosa sia dovuta tale degenerazione, se essa sia sintomo, causa, o nessuno dei due, e come fare ad uscirne. Ne ripercorre la genealogia, con una scrittura impeccabile e un’analisi lucida e ragionata che è prima di tutto un compendio. E anche se non è tutta farina del suo sacco, certo non gli manca l’onestà intellettuale di citare i suoi mentori: da Cartesio a Piero Gobetti, da Duns Scoto a Guido Crainz, da Kant a Guy Debord, la bibliografia è lunga e interessante. Fontana comincia con lo snocciolare tutti i pregiudizi fioriti in questi anni, che si sono arrovellati su una presunta quiddità degli italiani, determinata di volta in volta da ragioni territoriali, genetiche, ontologiche. E, ovviamente, li mette da parte tutti: quelli fondati sul dna come quelli fondati sul guicciardinismo, o sul presunto “familismo amorale” di Banfield.
La domanda da cui La velocità del buio si origina è: “Perché italiano è un termine deteriore?”, “Perché siamo così?” Ma subito essa si ribalta, rivelando l’aspetto genealogico della ricerca: “Siamo sempre stati così?” La risposta, accompagnata da un argomentazione puntuale e costante (qui si vede il piglio da filosofo, e questo è, a mio avviso, il punto di forza del libro) è complessa, e in questa sede non potrò che abbozzarne il percorso. Essa sta innanzitutto nella storia della nostra terra, espressione geografica prima ancora che Repubblica, in cui un’educazione alla modernità è sempre mancata. Ma il momento in cui la crisi si è acuita e si è manifestata in tutta la sua drammaticità è proprio il “trentennio” berlusconiano: a partire dagli anni ottanta, epoca in cui tutte le occasioni perdute e tutti i nodi prodottisi a partire dalla cattiva gestione del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta sono venuti al pettine.
Le cause storiche della nostra deriva si intrecciano con quelle estetiche e cognitive: la situazione attuale rappresenta il gradino più basso non tanto a livello politico (perché tuttora “peggio del fascismo rimane solo il fascismo”), quanto a livello di morale civile. Eppure, parlare di “mutazione antropologica” rischia di rimanere pura retorica se non si spiega cosa si intenda con questa categoria, di per sé sterile. Dunque.
“Sua emittenza” entra in politica dopo e in contrapposizione agli scandali di tangentopoli. Ma, spiega Fontana, la sua risposta agli sconvolgimenti subìti dalla classe politica italiana è proprio di natura “antipolitica”. L’alternativa alla vecchia classe dirigente è un partito che già nel nome reca i connotati di uno slogan pubblicitario, di un coro da stadio, primo anello di una serie di operazioni di svuotamento semantico (dall’uso spropositato dell’epiteto “comunisti”, al “mi consenta”, alla magistratura come “metastasi”). Berlusconi incarna un modello aziendale più che politico, un obiettivo economico privato invece che pubblico: “voto lui perché voglio diventare come lui”. E qui si incardina l’altro deleterio ingranaggio del berlusconismo: l’elemento mitopoietico, quello che spinge l’italiano medio all’identificazione, in nome di un ideale che è egoistico e mai sociale, che insegue la “simpatia” e il machismo, nell’emulazione di un corpo che è ovunque ed è ostentato, nella sua materialità, nella sua infaticabilità, nel suo aspetto grottesco e, in ultima analisi, nella sua immortalità.
Tra i tanti (Colin Crouch, Marco Belpoliti, Franca D’Agostini), Fontana cita anche Paul Virilio, da cui prende in prestito la categoria di “post-politico”: quello che Berlusconi attua è uno svuotamento del contrasto tra destra e sinistra, che semplicemente cessa di avere senso, sostituito da pulsioni altre.
L’elemento chiave, somma e matrice allo stesso tempo di tutte queste caratteristiche, consiste nello “spregio verso ogni forma di etica della razionalità”: esso è dunque un attacco alle tre corde che secondo Fontana reggono la società civile: verità, razionalità ed etica. Non solo: chi pretende di crederci ancora è un “idiota”, e la classe intellettuale – Brunetta docet – non è altro che “culturame”.
Il berlusconismo porta avanti un indebolimento costante della verità come norma: la sua figura trionfante è l’opinionista, la delegittimazione è il suo unico strumento retorico: “è l’inno all’egoismo assoluto sia nei fatti sia nei discorsi, perché non riconosce l’interlocutore come agente razionale, ma solo comprimario in una beffa”. In questo senso, il fatto che la maggioranza degli italiani pensi che Striscia la notizia e Le Iene facciano informazione o satira dovrebbe farci riflettere.
Nel momento in cui la dicotomia tra vero e falso cessa di esistere, non c’è più bisogno di giustificare i propri argomenti. La comunicazione ha preso il sopravvento sull’informazione, per cui posso dire qualsiasi cosa, non importa che sia falsa: prima che essa venga smentita, qualcuno l’avrà ormai interiorizzata. È il trionfo della stronzata.
Ci troviamo dunque, prosegue l’analisi, in una situazione di crisi cognitiva e normativa che ha contagiato la semantica e la pragmatica, prosperando su un analfabetismo funzionale che è un dato di fatto: non basta saper leggere e far di conto per avere una coscienza critica, e due terzi degli italiani sono totalmente incapaci di interagire con la società dell’informazione. Non potendo contare sulle proprie forze, si fa dunque leva su quelle altrui: di qui il clientelismo, la corruzione, le parentopoli. L’Italia è diventata “un ceto mediamente plebeo”, definito non tanto dal reddito quanto dallo stile di vita, rancoroso e consumistico, “dove la volgarità non è una categoria estetica ma in primo luogo cognitiva”: tutto ciò che è complesso e impegnativo va eliminato in quanto tale perché pesante, borioso, inutile.
E qui la colpa è di tutti noi, incalza Fontana. La colpa è anche e soprattutto della sinistra, incapace di ripensare un ruolo formativo, una sinistra il cui distacco snobistico non ha permesso di riconoscere la necessità di rispondere all’edonismo dilagante: arroccata sul suo materialismo e antiedonismo, non ha saputo elaborare una cultura popolare alternativa al “nazionalpopolare”.
A parte l’ormai trita parentesi sulla videocrazia e su come tutto sia cominciato con Drive In, l’ultima riflessione interessante di Fontana, anche se solo abbozzata, è quella sulla necessità di estetizzare i fatti, il cui vuoto viene ricoperto dalla tiepida patina del patetico – nei programmi di intrattenimento quanto nei notiziari.
La pars construens del libro, purtroppo (per noi), è la più debole della catena. Come si fa ad uscire dal buio in cui siamo precipitati?
Innanzitutto facendosi “minoranza etica”, come ha sostenuto Goffredo Fofi: scegliendo di non schierarsi con il pensiero dominante, rivolgendosi alla cultura underground e alla rete (quella seria), alla diffusione orizzontale e locale delle conoscenze.
Poi, ricercando la Bellezza, intesa come valore etico, come “forma sensoriale della speranza” e rifiuto del cinismo e dell’indifferenza (ammetto che questo punto è quello che mi tocca di più emotivamente, e forse proprio per questo quello che mi lascia più dubbiosa).
E, infine, in quello che non ha paura di risultare un anacronismo, portando avanti l’Illuminismo, come ideale umanistico, come esercizio quotidiano della ragione, per “sostituire la logica declamatoria (demagogica, facile, urlata) con quella argomentativa”.
Forse molte di queste cose le sapevamo già. Forse le soluzioni di Fontana non servono a nulla, se siamo sempre noi ad applicarle. L’alternativa che propongo, allora, è regalare questo libro a chi non conosce questi meccanismi. E magari farcelo prestare, poi. Perché una rinfrescatina non fa mai male.

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