Il Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer nel settembre 1979 infiltrò un suo militante nelle Brigate rosse d’intesa con il reparto antiterrorismo dei Carabinieri diretto da Carlo Alberto Dalla Chiesa. La collaborazione fu suggellata da un patto tra il senatore Ugo Pecchioli, che dirigeva la sezione Problemi dello Stato del Pci, e il generale che tre anni dopo sarà assassinato a Palermo da Cosa nostra. Essa si rivelò decisiva per destabilizzare il partito armato. E diede inizio all’”Operazione Olocausto 1”, che consentirà alla Sezione anticrimine dei carabinieri di Roma di avviare lo smantellamento della colonna brigatista che operava nella capitale.
Da sinistra a destra: Ugo Pecchioli e E. Berlinguer
E’ Domenico di Petrillo – comandante operativo della struttura antiterrorismo romana che agiva agli ordini di Dalla Chiesa – a rivelare in un suo libro fatti rimasti coperti da segreto per quasi quarant’anni. Titolo dell’opera pubblicata in maggio da Melampo: “Il lungo assedio”.
La vicenda dell’infiltrato era sempre rimasta confinata tra le indiscrezioni, senza mai ottenere conferme. Si sa che, dopo l’incidente-attentato subito da Berlinguer a Sofia nel 1973, il Pci aveva cominciato a trasferire alle forze di Dalla Chiesa le informazioni che l’“Apparato di vigilanza democratica” del partito andava raccogliendo nelle fabbriche e nel sindacato. Si sa che nei rapporti del generale all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni si fa riferimento all’attività di penetrazione delle Br svolta dai carabinieri attraverso gli infiltrati. Si sa anche che il generale riprese l’argomento davanti alla Commissione Moro, mostrando un documento che non volle consegnare per ragioni di sicurezza.
Di tutto questo c’è traccia in “Segreto di Stato” (Einaudi) di Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, l’ex presidente della Commissione stragi e terrorismo. Pellegrino dichiara, in questo libro edito nel 2000, che le risposte al problema degli infiltrati di cui il generale si serviva per contrastare il terrorismo dovrebbero essere negli archivi dei carabinieri. E precisa: “Dalla Chiesa ebbe in qualche fase anche uomini del Pci. Ritengo infatti che dirigenti come Ugo Pecchioli abbiano contribuito a disarticolare le Br anche suggerendo i nomi di possibili infiltrati”. Di Petrillo sgombra dunque il campo dal dubbio. E mette un punto fermo sulla questione nonostante gli autori del patto, non essendo più in vita, non possano più né confermare né smentire.
Il militante che si prestò a fare da informatore – nome in codice “Fontanone” o “FG” – fu presentato da Pecchioli al generale, il quale ne affidò la gestione sul campo dapprima al colonnello Umberto Bonaventura e successivamente a Domenico Di Petrillo. Bonaventura, poi divenuto ufficiale del servizio militare (il Sismi), era a conoscenza di molti segreti. E’ accertato che il 1° ottobre 1978 fosse entrato nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, durante la perquisizione, e avesse portato all’esterno le fotocopie del memoriale di Aldo Moro per restituirle dopo qualche ora con delle pagine in meno. Sempre Pellegrino sostiene nel citato libro che, davanti alla Commissione stragi e terrorismo, “Bonaventura,…alla domanda se i carabinieri avessero infiltrati…, ci ha risposto di no, mentendo”.
La strada imboccata dal Pci, “certamente singolare – scrive Di Petrillo – era motivata dall’intenzione di contrastare con maggior decisione il ‘partito armato’”. A tale decisione aveva contribuito nel gennaio 1979 l’assassinio di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano, sindacalista della Cgil, che era stato ucciso a Genova, mentre usciva di casa all’alba per recarsi in fabbrica, per aver denunciato un collega che aveva diffuso nello stabilimento volantini delle Br.
“Fontanone” – del quale Di Petrillo continua a proteggere l’identità – era “sempre guardingo e controllato, interpretava in ogni circostanza il ruolo del partner, più che del semplice informatore: esprimeva le sue valutazioni e chiedeva persino conto, senza tante cerimonie, di quanto stavamo facendo, e se stessimo lavorando bene…’FG’ non era romano, a un certo punto, anche a causa di problemi familiari, dovette fare ritorno nella città del Nord da cui proveniva. Aveva, fra l’altro, necessità di riprendere l’attività lavorativa interrotta proprio per svolgere il compito affidatogli. Di solito i nostri incontri avvenivano all’ora di pranzo, in trattoria…Il nostro rapporto durò pochissimi mesi; precisamente sino a quando riuscimmo a individuare un’area dell’antagonismo romano, nella zona Sud della capitale, caratterizzata dalla presenza di numerosi collettivi: le Br stavano cercando di indirizzarne l’attività e di selezionare al loro interno militanti da arruolare…La stessa tempistica del suo disimpegno era stata accuratamente calibrata proprio per confondere le idee ed evitare qualsiasi possibilità di identificazione”.
Prende così le mosse l’operazione antiterrorismo che nell’arco di dieci anni sfocerà nel “completo smantellamento dell’organizzazione eversiva più pericolosa che avesse mai operato in Italia”: centinaia di arresti di militanti e fiancheggiatori, parecchi dei quali collaborarono “grazie a un’intensa opera di convincimento basata sul dialogo e mai tramite il ricorso alla coercizione fisica”; scontri a fuoco; la scoperta di decine di covi (gli appartamenti in cui i brigatisti vivevano in clandestinità, sotto falso nome); il sequestro di notevoli quantitativi di armi e munizioni; la scoperta di documenti che si riveleranno preziosi per la conoscenza dell’avversario.
Di Petrillo con i suoi “ragazzi”, carabinieri poco più che ventenni, costruì, nell’ambito dell’attività di polizia giudiziaria che competeva all’Arma, un servizio sistematico di intelligence che consentì di circoscrivere – con la compilazione di decine di migliaia di fascicoli su singoli militanti, singoli incontri, singoli episodi, attraverso intercettazioni telefoniche, pedinamenti, riprese fotografiche, analisi e interpretazione dei dati – l’intera area della banda armata presente nella capitale. Su un enorme tabellone di carta che si arricchiva di settimana in settimana.
Di Petrillo e i suoi uomini andavano annotando nomi, relazioni, incontri, luoghi, informazioni utili a tracciare il confine tra il movimento della sinistra rivoluzionaria e la lotta armata. Le operazioni di cattura erano il risultato di questo estenuante e complesso lavoro di intelligencetipico da servizio segreto. Non a caso l’ultimo incarico di Di Petrillo (prima di dimettersi dall’Arma per assumere la responsabilità di capo della sicurezza dell’Eni tra il 1996 e il 2006) fu quella di direttore della divisione controterrorismo del Sisde.
Nel febbraio 1980 fu arrestato a Torino Patrizio Peci, il primo “pentito” delle Br, e dal suo interrogatorio emersero dettagli che sarebbero risultati decisivi per le indagini. Le sue confessioni permisero alla Sezione anticrimine della capitale di risalire a Francesco Piccioni il quale condusse i carabinieri che da tempo lo seguivano a sua insaputa all’interno di una trattoria di via Galvani dove il direttivo della colonna romana si era dato appuntamento. Fu lì che Di Petrillo si trovò faccia a faccia con brigatisti quali Bruno Seghetti e Anna Laura Braghetti. Da quel momento l’anticrimine, continuando a seguire Piccioni, riuscì a individuare decine di affiliati. Tra questi, Alessandra De Luca, una coadiutrice giudiziaria che lavorava nella segreteria di Guido Guasco, il magistrato della Procura generale della Corte d’Appello di Roma che era impegnato sul caso Moro. Piccioni fu arrestato nel covo di via Silvani dopo che i carabinieri se ne erano ampiamente serviti per scoprire tutti i suoi collegamenti.
Il rapporto di collaborazione tra l’antiterrorismo e il Pci proseguì anche dopo l’uscita di scena di “Fontanone”, negli anni successivi al 1981 in cui prende il via l’”Operazione Olocausto 2”. Di Petrillo racconta di un suo contatto con l’avvocato Fausto Tarsitano, un suo conoscente “notoriamente vicino al partito”, al quale si era rivolto per “identificare un giovane, certamente brigatista rosso, che era stato fotografato durante un incontro…Dopo qualche giorno [Tarsitano] mi comunicò… nome, cognome e indirizzo della persona…un individuo di eccezionali qualità intellettuali, che dopo un lungo e sofferto travaglio si è pentito…è diventato un prezioso collaboratore di giustizia…[ed] è ormai, da parecchi anni, un accademico affermato”.
Il giovane fu arrestato in segreto il 20 febbraio 1982, e il suo contributo al lavoro investigativo della Sezione anticrimine si rivelò eccezionale per la cattura di altri esponenti della lotta armata romana. Nel febbraio-marzo 1984 in un covo di via Ferentano furono presi in un colpo solo quaranta persone.
Parallelamente furono avviate altre “Operazioni Olocausto”, la 3, la 4, la 5, la 6, la 7, la 8, la 9. Ognuna segnò la distruzione di parti vitali dell’organizzazione terroristica romana.
Le Br della capitale erano andate sgretolandosi e non avevano retto allo sbandamento seguito all’arresto di Moretti. Nel panorama della lotta armata erano comparse nuove sigle come il Partito Guerriglia guidato dal criminologo Giovanni Senzani, dalle cui ceneri era poi sorta l’Unione dei comunisti combattenti. Due esponenti del Partito Guerriglia, tra cui Ennio Di Rocco, erano stati sorpresi a indagare sull’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti; ne stavano meditando il sequestro. E furono le dichiarazioni di Di Rocco a condurre la Sezione anticrimine alla scoperta di un covo in cui fu rinvenuto un manoscritto di Senzani che documentava incontri tra le Br e l’organizzazione palestinese al-Fatah.
Con un ulteriore salto di qualità delle indagini, i carabinieri arrivarono a un deposito di armi in Sardegna gestito dalle Brigate rosse ma nella disponibilità di al-Fatah. E accertarono l’esistenza di collegamenti stabili tra Mario Moretti ed esponenti di altre organizzazioni terroristiche quali l’Eta basca, l’Ira irlandese e la Raf tedesca, che si incontravano a Parigi.
Nel suo diario operativo Di Petrillo ridimensiona il ruolo di Hyperion, la scuola di lingue costituita nella capitale francese da Corrado Simioni, da taluni considerata come l’attività di copertura di una direzione strategica delle Br a un livello più alto. Hyperion è stata “ciclicamente accusata…, sulla base di vaghe e talvolta contraddittorie dichiarazioni…, di avere svolto un ruolo di ‘eterodirezione’ delle Brigate rosse e di aver costituito un punt di riferimento del terrorismo internazionale, se non addirittura di aver rappresentato un punto di contatto tra servizi segreti mondiali, tra cui Kgb e Cia, nonché una ‘camera di compensazione’ per il mantenimento degli equilibri politico-militari sanciti dalla conferenza di Yalta”. Giudizi e ipotesi investigative alle quali Di Petrillo mostra di non credere..
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