lunedì 27 agosto 2012

SERGIO ROMANO E LE SUE INTERPRETAZIONI STORICHE DISTORTE. TONELLO F., Aiuto, sono tornati i giacobini!, IL FATTO, 27 agosto 2012

Finalmente si è capito cosa turba i sonni degli editorialisti del Corriere: insieme alle procure “giustizialiste” e irrispettose dei diritti del Presidente della Repubblica ci sono i giacobini. I liberali del quotidiano milanese, non potendo più prendersela con l’Unione Sovietica (che non esiste più) né con la Cina (ottimo partner commerciale) devono rintracciare le origini di tutti i mali moderni nel “giacobinismo”. La siccità e le alluvioni, i treni in ritardo e la benzina a 2 euro, la Sicilia in bancarotta e la malasanità, le trattorie di una volta che non esistono più e le code al casello di Melegnano sono colpa dei giacobini francesi, quei feroci tagliatori di teste che, 223 anni dopo la rivoluzione, apparentemente sono ancora fra noi.


Sono un docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegno un corso sul sistema politico degli Stati Uniti e uno sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ho insegnato alla University of Pittsburgh e fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna). Il mio ultimo libro si chiama L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), in precedenza ho pubblicato La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003), La nuova macchina dell’informazione (Feltrinelli, 1999). Da molti anni collaboro alle pagine culturali del manifesto e vado in bicicletta.

Per dimostrarlo, Sergio Romano ha scritto un lungo articolo sul supplemento domenicale La lettura del 26 agosto, data in cui si celebra l’anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’articolo è un po’ confuso e inizia con descrizioni truculente (“All’intendente Bertier de Sauvigny fu squarciato il petto e strappato il cuore”) e prosegue citando il “governatore Morris” che “aveva appena pranzato in un ristorante” quando si imbattè in un gruppo di sanculotti con la testa di un decapitato su una picca. Che disgusto, impossibile digerire dopo una scena simile. Magari sarebbe stato più utile spiegare ai lettori del Corriere che il “politico americano” Morris non era governatore di nulla ma si chiamava “Gouverneur” come nome di battesimo e, soprattutto, era stato l’estensore materiale del testo finale della Costituzione americana, quindi un personaggio con cui l’articolista che mette a confronto Francia e Stati Uniti dovrebbe avere una qualche familiarità.
“Osservata da un punto di vista liberale” prosegue Sergio Romano “la Dichiarazione pecca di una eccessiva astrattezza”. Certo, gli articoli che vietano gli arresti arbitrari (articolo 7), sanciscono la presunzione di innocenza (art. 9) o garantiscono la libertà religiosa (art. 10) sono “astratti”. Forse in via Solferino li avrebbero preferiti più concreti: “Il signor Louis Dupont, nato a Chantilly e di professione pasticciere, ha diritto di essere buddista senza che nessuno gli dica nulla. Per altre eventuali conversioni a religioni orientali fare domanda al Ministero dei Culti in triplice copia, pagando l’apposita concessione governativa”.
Come dovrebbe essere una “Dichiarazione dei diritti” se non astratta e universale, esattamente come i diritti che vuole difendere? La proposta dell’editorialista del Corriere è di descrivere “con puntigliosa precisione ciò che non è più tollerabile” da parte della monarchia. Peccato che stiamo confrontando mele con pere o angurie con noci di cocco: i Bill of Rights sono documenti che proteggono il cittadino all’interno del regime esistente, la Dichiarazioni dei diritti dell’uomo era un testo fondativo di un nuovo ordine politico e infatti la monarchia non era citata: “Toute souveraineté réside dans la Nation”.
Certo, ai tempi di Marchionne l’idea che gli uomini “nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti” (art. 1) appare sovversiva e, non potendosela prendere con la FIOM, il titolista del Corriere scrive che la Dichiarazione “gronda giacobinismo”. Che orrore! Tuttavia, dopo aver debitamente consultato i miei colleghi del dipartimento di Storia, sono giunto alla conclusione che, al momento in cui il testo fu votato (26 agosto 1789) i giacobini purtroppo non esistevano. L’associazione che più tardi avrebbe preso nome dal convento di rue Saint-Honoré infatti non aveva ancora preso forma: in agosto si chiamava Club breton, era stata fondata da due deputati della Bretagna, Lanjuinais et Le Chapelier, e aveva sede a Versailles. Oltre ad essere composta di deputati prudenti e timorati di dio.
Chi era, per esempio, l’ispiratore principale del testo della Dichiarazione? Non il troppo citato Lafayette (che pure era un marchese) ma …l’arcivescovo di Bordeaux, Champion de Cicé, considerato all’epoca un cattolico liberale. Si capisce, però, che nell’era Monti-Fornero, perfino gli arcivescovi, se parlano di uguaglianza e di diritti, vengano considerati pericolosi. E pensare che i saggi deputati francesi, evidentemente prevedendo che un giorno o l’altro sarebbe apparsi sull’orizzonte europeo Mario Draghi e Corrado Passera, avevano scritto nell’articolo 17 che la proprietà era non solo un “diritto inviolabile” ma addirittura “sacro”, neanche volessero anticipare le obiezioni di Cicchitto

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