sabato 18 agosto 2012

ITALIA IN EUROPA NELLE CANZONI STRANIERE. DI STEFANO P., L'Italia delle canzoni solo pistole e spaghetti, IL CORRIERE DELLA SERA, 17 agosto 2012

Dolce vita, moda, mafia, auto di lusso e pizza: le immagini diffuse dalla musica pop straniera



Stefano Telve insegna Linguistica italiana all’Università della Tuscia

Il canto, fuori dai nostri confini, è sentito come una delle espressioni artistiche più tipiche della cultura italiana. Forse la più tipica, come sostiene il linguista Stefano Telve nel saggio That's amore! (in uscita presso Il Mulino). Non si contano i successi planetari di canzoni italiane eseguite non solo da voci originali - a partire da Caruso per finire con Bocelli - ma anche da artisti stranieri che si sono cimentati in melodie celebri nate nel Belpaese: chi non ricorda It's now or never, la famosa versione di 'O sole mio incisa da Elvis Presley il 3 aprile 1960? Fu il più grande successo del cantante di Memphis, con venti milioni di copie vendute.
In realtà sin dall'Ottocento la musica era un brand centrale del Made in Italy, che toccò vette commerciali impensate quando Enrico Caruso lasciò le arie per la canzonetta non solo classica (Marechiare, Torna a Surriento, Funiculì funiculà e Te voglio bene assai). Composizioni in napoletano, perfette «per la compiutezza della forma strofa-ritornello, la straordinaria efficacia narrativa, il melodizzare fresco di reminiscenze della tradizione operistica», si diffondono ovunque grazie all'imporsi dell'industria discografica americana e alla crescente mediazione radiofonica. La voce tenorile che intona brani partenopei piace anche nel dopoguerra, e Claudio Villa raccoglie l'eredità di Beniamino Gigli e Carlo Buti diventando un idolo su tutti i palcoscenici, mentre all'estero raccolgono i primi consensi anche le mescolanze swingate di Nicola Arigliano, Bruno Martino, Renato Carosone, il cui brillante repertorio, da Tu vuo' fa' l'americano a Maruzzella , viene proposto nel '57 in una trionfale tournée che culminerà alla Carnegie Hall di New York. Repertorio che poi, negli anni Novanta, sarà ripreso e portato in giro per il mondo da Renzo Arbore e dalla sua Orchestra Italiana.
I nomi delle star internazionali della canzone italiana del dopoguerra sono innumerevoli: nel '90 si è calcolato che Mina aveva inciso sino ad allora oltre 738 canzoni e venduto circa settanta milioni di dischi in inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, turco, giapponese. E poi: Ornella Vanoni, Milva, Ciampi, Endrigo, Modugno. Nel blu dipinto di blu, del '58, rimane per tredici settimane al primo posto delle classifiche Usa, entrando poi nel repertorio di numerosi cantanti, da Bobby Rydell a Ella Fitzgerald. Oggi, con circa 22 milioni di copie, è uno dei brani che ha venduto di più nel mondo dopo Bianco Natale di Bing Crosby. Ma si potrebbero aggiungere: Little Tony, Tony Renis, Massimo Ranieri, Iva Zanicchi, Gino Paoli, Rita Pavone, Gianni Morandi, Edoardo Vianello, mentre il tentativo di lanciare Battisti in America darà solo delusioni. Si arriva infine, in anni più recenti, a Zucchero, Ramazzotti, Pausini, Bocelli, Nannini, Pollina, Testa. E alla fama europea di Paolo Conte, il cantautore italiano più celebrato dai francesi.
Ma quelli che Telve chiama gli «ambasciatori del canto italiano nel mondo» sono anche gli stranieri che cantano nella nostra lingua. A decine, tedeschi, francesi, turchi, americani, svedesi, canadesi: da Alice & Ellen Kessler a Juliette Gréco e Françoise Hardy, da Sasha Distel a Charles Aznavour e Paul Anka. O, prima ancora, quelli che esportano lingua e cultura italiana nel proprio paese, come i crooner statunitensi, per lo più figli di immigrati, come Vic Damone, Perry Como, Dean Martin, Frank Sinatra, i tenori Mario Lanza, Sergio Franchi eccetera.
Segni più recenti di questa evidente simpatia per la nostra lingua cantata sono soluzioni come quella del francese di origini spagnole Manu Chao, il quale nel 2007 pubblica l'album «La Radiolina» che qua e là alterna italiano, francese e spagnolo:
«Che cosa vuoi da me?
Che cosa vuoi ancora?
Che cosa vuoi di più?»
(A cosa);
o quella degli Yello, un gruppo svizzero di musica elettronico-techno, che in Otto di Catania fa rievocare a un emigrato alcuni momenti chiave della sua vita in un italiano visibilmente incerto:
«Cari spettatori,
Amici del varieté
Calorissimo pubblico
Buona sera qui al Stella Matto».

Ambasciatori meno disinteressati sono quei cantanti che hanno vissuto in prima persona l'emigrazione (come dimenticare il «belga» Adamo?) o ne hanno sperimentato il sentimento attraverso l'esperienza familiare: è il caso di Nevio Passaro (classe 1981), che ha spopolato in Germania con una canzone in italiano (Amore per sempre, 2007), raggiungendo il secondo posto in classifica, e poi con l'album «Due»:
«Cammino per la notte
A pugni stretti in tasca
E chiudo gli occhi perché
Così non sento».

Ma per valutare al meglio l'immagine e il prestigio dell'Italia all'estero, è indispensabile studiare più precisamente la presenza della nostra lingua (compresi i nomi e i toponimi) dentro testi canori altrimenti integralmente stranieri: quali sono le tessere lessicali che vengono utilizzate e con quale funzione.
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Disegno di Fabio Sironi
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Si entra così (un po' faticosamente, per la verità, la gran massa di materiali essendo organizzata in modo tutt'altro che lineare) nella contemporaneità, cuore del saggio di Telve. Dove si mostra come agiscano ancora gli stereotipi ereditati dal Gran Tour, dalla pubblicistica più trita o dalla cultura pubblicitaria in voga. Per esempio, se si osservano gli italianismi circolanti nell'hip hop, saltano in evidenza i campi semantici più ovvi sia in positivo sia in negativo: sentimentalismo romantico, dolce vita, cibo, moda, arte e storia, design, automobili di lusso, luoghi pittoreschi del turismo di massa, chiusura familista, criminalità comune e organizzata. Ecco la Lamborghini, la Ferrari e la Maserati (o più spesso Mazurati) incastonate dentro sequenze inglesi: «Follow, I'm like a Lamborghini green Diablo» (AZ, Nas, The Flyest). Ecco Dolce & Gabbana, Prada, Gucci, Fendi disseminati qua e là come status sym bol da accogliere o respingere. Tra i marchi più gettonati c'è anche la Beretta, che si può trovare minacciosamente in rima con vendetta: «Settle vendetta with metal beretta from ghetto to ghetto» (Eminem, RBX, Sticky, Fingaz, «Remember Me?»). Sul versante storico, si registra l'uso banalizzante di Machiavelli (anche Makaveli) come emblema dell'opportunismo cinico, magari in rima con Parelli (per Pirelli), e mescolato con «spaghetti» e «confetti», con Prada e Fendi in una canzone del rapper americano Chamillionaire (I Got Hoes, 2004). Non lascia indifferenti la qualità enogastronomica italiana, rappresentata anche da «pasta», «zucchini», «ragù», «pizza», «macaroni», «cotoletta», «olive». Senza dimenticare il vino, in particolare il Chianti, accostato dal trio di Philadelphia Jedi Mind Tricks al genio di Einstein o evocato in Italian Ragga del britannico di origine giamaicana Ice Mc, in un surreale menu fatto di funghi, cotolette, pizze, salsicce, quattro formaggi, peperoni, calzone.
La mescolanza plurilingue è, negli ultimi anni, un carattere ricorrente di cui si giova anche l'italiano persino nelle sue coloriture dialettali: in Bella famiglia (2002) il gruppo hardcore Do or die alterna all'inglese l'italiano e il siciliano
Che un tempu pi viviri e
Mille sorte pi murire
Cosa canni fannu forti
e pinsare e cummattere
come una Bella famiglia
»).
Altre volte l'opzione è interamente italiana, come in Bella faccina di Sananda Maitreya, ma viene suggerita da ragioni private. In Luther Blisset dei post-punk statunitensi Tuxedomoon, lo slancio sperimentale genera soluzioni simil futuriste accostate a un motto fascista:
«zoom zoom zoom
womb womb womb
omb tomb tomb (...)
zoom
seeing old mussolini
faded on the wall
chi si ferma è perduto
».
Bisogna uscire dall'hip hop e tornare al postmoderno parodico dei Queen per trovare una sequenza italiana in chiave di falsetto e nonsense («Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Figaro, Magnifico» in Bohemian Rapsody). Tra i brand storici è molto frequente Dante, citato alla lettera dal gruppo black metal norvegese degli Ancient in At the Infernal Portal (1996): «Per me si va ne la citta dolente...». Con l'Alighieri e Galileo, anche Michelangelo, Leonardo (un vero must nella canzone straniera è il sorriso misterioso della Monna Lisa), Marconi, Colombo sono icone culturali che conservano un invidiabile prestigio internazionale. Ma i luoghi comuni più resistenti riguardano le città, associate nell'hip hop di qualsiasi latitudine a immagini standard del turismo da cartolina: Venezia è la malinconia e la pioggia, Napoli è ancora il sole e il mandolino, la Toscana è la quiete della campagna, Roma è la sua storia e la dolce vita. E a questo proposito persiste l'immaginario della «Donna Bellissima Italiana» nel solco delle ragazze evocate da Rod Stewart in Italian girls, '72.
Lo stereotipo si presta ovviamente al controcanto e alla parodia. Si veda per esempio il gruppo tedesco Höhner, quando propone un inno alla Pizza wundaba (meravigliosa) e ancora a Pizza, Chianti, espresso, dove mescola ironicamente «Pizza mamamia» con «Tarantella Fricadella» (polpette), «Mozzarella», «pomodoro bello», «salami», l'amore e la dolce vita. Menu diversi ma con analogo effetto-zuppa si trovano un po' ovunque. A volte con intenti di denuncia sociale, come accade in Heisse Nachte (in Palermo) (Notti calde a Palermo, 2004) del gruppo Erste Allgemeine Verunsicherung, da cui emerge uno spaccato mafioso, con un «padre del vomito organizzato» che al Ristorante La Carbonara inneggia alla Famiglia, allo zio Al Capone e a Cosa Nostra. Sullo stesso versante, vale la pena ricordare il successo dirompente ottenuto nel 2000 in tutta Europa dalla trilogia di cd intitolata Il Canto di Malavita: la musica della mafia, una compilation di «piccole meraviglie da far gelare il sangue», censurata in Italia con l'accusa di promuovere la cultura criminale.
Le parodie e lo scherno arrivano soprattutto dall'area germanofona, al punto che la rock band berlinese Knorkator dichiara senza mezzi termini di non volerne sapere del tramonto e delle zie italiane, preferendo andare dritto allo scopo: «Ich will nur ficken, ficken, ficken». Un po' lo stesso programma della cantante della Generazione Cocktail giapponese Kahimi Karie, che trovandosi sola a Roma in vespa non si lasciava distrarre certo dalle attrazioni storico-artistiche. E nel clima dissacrante, arriva, infine, anche il turpiloquio.
Paolo Di Stefano
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Il libro
• In «That's amore!» (che uscirà il 30 agosto presso Il Mulino), il linguista Stefano Telve analizza la presenza della lingua italiana nella musica leggera straniera
• Fuori d'Italia la fama secolare dell'italiano «lingua del canto» per eccellenza resta vitale ancora oggi. Accanto all'italiano da esportazione dei vari Caruso, Modugno, Pausini, Bocelli, si assiste a una diffusione della nostra lingua in bocca a cantanti stranieri di varia ispirazione: da Dean Martin e Elvis Presley fino all'hip hop al post-punk e all'heavy metal
• Italianismi e pseudo italianismi compaiono nella musica leggera internazionale facendo da cassa di risonanza alla nostra cultura all'estero, tra stereotipi e parodia
• Stefano Telve insegna linguistica italiana all'Università della Tuscia

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