giovedì 16 agosto 2012

POLITICA E VIOLENZA. CILIBERTO M., Il linciaggio delle opinioni, L'UNITA', 16 agosto 2012

Nei giorni scorsi un mio articolo pubblicato su questo giornale – nel quale ragionavo della necessità, finita la seconda Repubblica, di un riequilibrio dei poteri secondo i principi della Carta costituzionale – è stato oggetto di due attacchi da parte de «Il Fatto» con l’obiettivo di delegittimare quanto avevo sostenuto e di denigrare la mia persona.



Non intendo polemizzare, tanto meno in quei toni, sia per i motivi che il lettore comprenderà leggendo queste righe, sia per un gesto di attenzione verso un giornale che poco più di un anno fa, e in un momento difficile, manifestò un forte consenso con le tesi che ho sostenuto nel mio libro sulla «Democrazia dispotica». Lo ricordo perché è proprio riallacciandomi alle tesi sostenute in quel libro che sono stato indotto a svolgere le considerazioni che seguono.
Democrazia e opinione pubblica sono due concetti strettamente connessi: come ci hanno spiegato i classici della democrazia senza l’una non può esservi l’altra. E qual è oggi in Italia la situazione della opinione pubblica, quali sono i luoghi principali della sua formazione, quali le forme e il lessico attraverso cui essa si costituisce e si esprime? Queste domande, ovviamente, riguardano in primo luogo la televisione, che nel periodo berlusconiano ha assunto un ruolo centrale nella diffusione di sensi comuni a livello di massa; ma anche i giornali – e non solo i quotidiani – continuano a svolgere, nonostante la loro crisi, un ruolo importante.
Sia l’una sia gli altri sono profondamente cambiati negli ultimi tre decenni con l’affermazione, per quanto riguarda la televisione, dei cosiddetti talk-show. Questo fenomeno, che precede il successo politico di Berlusconi, si distingue anzitutto per due elementi: un coinvolgimento passivo del «pubblico» e un lessico di tipo nuovo. L’archetipo di questo tipo di televisione e di lessico televisivo è certamente il «Processo del lunedì» di Aldo Biscardi: da esso è nata un’intera famiglia di talk-show che, pur passando dallo sport alla politica, hanno mantenuto elementi costitutivi del modello originario, anzitutto sul piano del lessico che ha perso l’aura cerimoniale della prima Repubblica e si è progressivamente involgarito e trivializzato fino ad aprirsi, volutamente, alla dimensione della scurrilità, in un rapporto ambiguo e complice con il «pubblico».
Questa mutazione, tuttavia, non sarebbe stata così vasta e impetuosa se nella società non fossero esplosi potenti fenomeni di «secolarizzazione» che si sono fatti sentire anzitutto sul piano antropologico: sul terreno cioè della concezione della persona, dell’individuo. Cerco di spiegarmi.
Nella cultura italiana di matrice antifascista, base della prima Repubblica, sono stati presenti tre filoni filosofici, etici e religiosi: quello cristiano, quello liberale e quello marxista. I primi due, pur diversi in molti aspetti, sostengono, rispetto alla società e alla politica, il primato della persona o dell’individuo, mentre quello marxista, nella forma assunta nel Novecento, ha insistito sul primato della dimensione sociale e politica, in cui il singolo individuo deve riconoscersi e alla quale si deve subordinare. Concezioni molto diverse, dunque, ma omogenee riguardo a un punto: sia le une che le altre tengono ferma la specificità e l’originalità dell’«opera» rispetto all’«individuo».
Nelle culture e nei sensi comuni generati dalla secolarizzazione è proprio questo impianto che salta, con l’affermazione di una forma di «individualismo» che toglie peso e significato all’opera e valorizza come elemento principale la dimensione individuale, dissolvendo strutturalmente – ed è questo il punto essenziale – la distinzione tra «privato» e «pubblico», con una netta prevalenza del primo sul secondo.
Questo fenomeno – di cui Giovanni Paolo II con la Centesimus Annus fu critico intransigente – ha inciso profondamente, accelerandola, anche nella trasformazione della televisione e del giornalismo, con effetti di vasta portata sui processi di formazione – e manipolazione, della «opinione pubblica» -, e quindi sulla crisi della democrazia nel nostro Paese.
Anzitutto a destra, ma anche a sinistra, si è imposta una forma di giornalismo che ha puntato tutte le carte sull’«individuo», prescindendo dall’«opera», con una progressiva e inevitabile caduta nella dimensione «scandalistica», in quelli che Giuseppe D’Avanzo ha chiamato in un bellissimo articolo «riti di degradazione». È il cosiddetto «metodo Boffo», che procede in modo a prima vista paradossale ma in realtà del tutto coerente con le tendenze proprie della «secolarizzazione»: si concentra sugli individui, ma per distruggerli non certo per valorizzarli, con una contrapposizione radicale alla tradizione cristiana e liberale, ma anche al pensiero originario di Carlo Marx. È un metodo che ha effetti diretti anche sul piano del lessico, il quale si impernia in costellazioni linguistiche basate sulla violenza, l’intimidazione, fino al vero e proprio avvertimento mafioso.
Tutto questo incide a fondo nell’attuale crisi della democrazia italiana. Perché si sta affermando come fatto ordinario qualcosa di grave e profondo: l’attacco a quel fondamentale diritto dei «moderni» che è la libertà di opinione. Oggi chi pensa in modo non-conformista (mi riferisco alla «forma», non a uno specifico «contenuto» di cui ciascuno è ovviamente responsabile) può essere oggetto di attacchi sia a destra che a sinistra. E chi non avesse voglia di affrontare lo scontro, anche per le modalità con cui viene condotto, dovrebbe limitarsi al «foro interiore» e restare pubblicamente zitto, come nell’Italia della Controriforma. In alternativa, rischierebbe di essere immediatamente colpito denigrato diffamato e «rovistato» senza nessuna remora, anche nei suoi cassetti privati.
Questa situazione può generare almeno due effetti: l’autocensura e dunque il silenzio, come abbiamo detto, o addirittura la dissimulazione, come avveniva nel Cinquecento e nel Seicento. In entrambi i casi si genera un distacco dai comportamenti e dalle procedure propri della democrazia moderna. E proprio di questo, in fondo, si tratta: della degenerazione della nostra democrazia e del nostro costume civile; del progressivo formarsi, a destra e a sinistra, di nuovi lessici e nuove forme di comunicazione imperniate sull’uso violento e intimidatorio delle «parole», e sulla ricezione passiva e subalterna di un «pubblico» ridotto a ruolo di spettatore o, addirittura, complice. Si tratta di un processo di tendenziale decomposizione della “opinione pubblica” e, di conseguenza, della crisi del rapporto tra democrazia e opinione pubblica. Cioé di crisi della democrazia stessa. È qualcosa di assai grave che va, per certi aspetti, al di là dello stesso berlusconismo, il quale usava toni violenti ma li intrecciava a forme zuccherose e anche dolciastre, secondo il modello classico del «dispotismo dolce».
Nel nostro Paese, ogni tanto, qualcuno ai accorge che non esiste una vera opinione pubblica e che questo è un segno di crisi della democrazia. Giusto, ma forse bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni profonde di questa situazione e sviluppare una riflessione organica, se davvero si vuole avviare una nuova stagione della Repubblica. Perché quello che abbiamo davanti agli occhi, in questo momento, non è affatto un bel film.

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