giovedì 27 settembre 2012

ISTITUZIONI ITALIANE E CRISI DELLA DEMOCRAZIA. MEDICI S., Il popolo come plebe, IL MANIFESTO, 26 settembre 2012

Renata Polverini vinse le elezioni regionali nel Lazio grazie al voto di quelle province che hanno spedito in Consiglio regionale i vari Fiorito, Battistoni, Abruzzese, De Romanis. Gli stessi che, ingrata e dimentica, lei oggi definisce «indegni», «malfattori», «personaggi da operetta». Gli stessi che per tutto questo tempo hanno garantito quella maggioranza che le ha permesso di governare e spadroneggiare. Certo, tutto ciò aveva un costo: un costo in senso proprio, le cospicue prebende elargite attraverso la progressiva distribuzione di finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari.
Ecco perché il tentativo di smarcamento dell'ex presidente, il suo inacidito distanziarsi dal girone della corruttela, non sembra convincere nessuno. Tutti (e lei di più) erano consapevoli che la Regione Lazio si reggeva in virtù di un rapporto di scambio, un patto non scritto ma allegramente agito: i potentati del Pdl garantivano la tenuta dell'amministrazione, a condizione di poter contare su denaro pubblico da gestire privatamente.


Insomma uno schietto cacio e pepe, dove era chiaro chi metteva il pepe e chi portava il cacio. Un sistema di potere che in fondo funzionava in modo semplice: dritto per dritto. Un do ut des non proprio elegantissimo, neanche particolarmente raffinato, ma indubbiamente efficace. Del tutto coerente, peraltro, con l'impudico profilo di chi tutto questo gestiva: gente sbrigativa e disinvolta, personaggi che interpretavano il proprio ruolo istituzionale come una pura e semplice opportunità accumulatoria e l'assemblea elettiva di cui facevano parte come il cortile (o l'orto) sotto casa.
C'è tuttavia qualcosa di più, in questa storiaccia laziale. C'è anche la caduta rovinosa di un modello culturale. Sguaiato e pacchiano quanto si vuole, ma pur sempre, fino a qualche tempo fa, vincente e convincente. Un insieme di suggestioni e significanti che Polverini e Alemanno hanno largamente diffuso, in sintonia con un senso comune che, a sua volta, corrispondeva positivamente. La coda alla vaccinara consumata in piazza Montecitorio era un linguaggio che raggiungeva molto più di quanto si pensasse. Così come cavalcare il parapetto della curva nord dell'Olimpico, così come cantarellare le canzoni di Lucio Battisti ai comizi o insultare gli avversari in piazza («Zecca di merda»).
Uno stile politico che rifuggiva ogni intento pedagogico o di compostezza civica o di richiamo a responsabilità pubbliche. Ma direttamente confuso, anzi in amalgama, con una quotidianità sgrammaticata e rilassata, che consentiva smagliature e perfino trasgressioni. «Semo gente de borgata». Siamo come voi, ci arrangiamo come possiamo, furbastri, ignorantelli e un po' mascalzoni.
Ed è in assoluta continuità con quest'impronta («antropologica», la definiva ieri Alberto Burgio) che i consiglieri regionali passavano da una cena all'altra e organizzavano feste da basso impero. E lo stesso succede ancora a Roma, con le terrificanti sfilate di centurioni e fasci littori o con quel penoso Carnevale per le vie del centro.
Insomma, il popolo come plebe a cui concedere, di tanto in tanto, qualche innocuo svago. Mentre il potere, paterno e consolatorio, vede, provvede e ingoia. Come quando a Roma c'era il papa re. E a ben rifletterci è un po' così che la destra ha governato. Un ritorno a quei patetici fasti, con Francone Fiorito nei panni del Marchese del Grillo.
E' già cominciata nel frattempo la lotteria politica che dovrà designare il nuovo presidente dell'ex Stato pontificio. Già in molti invocano l'arrivo del generale Cadorna a Porta Pia. Meglio sarebbe ripristinare la Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi.

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