lunedì 23 novembre 2015

TERRORISMO E TRAGICITA' DEL POLITICO. M. CACCIARI, Se la politica riscopre la tragedia, L'ESPRESSO, 24 aprile 2015


La Resistenza è l’epilogo della grande guerra civile europea che ha segnato il “secolo breve”. Espressione perfetta della sua grandiosa tragicità. Gli insanabili conflitti nazionali e ideologici si concentrano sulla scena 
di un solo Paese, manifestando la loro essenza fratricida. L’inimicizia perviene necessariamente al suo massimo quando si scatena nel seno di una famiglia, poiché lì i contendenti lottano per lo stesso luogo, non posseggono che quello spazio. La violenza scardina, allora, ogni “diritto di guerra”, grande e problematica costruzione dello spirito europeo che il Novecento delle guerre civili ha spazzato via. Tuttavia, occorre 
a un tempo riconoscere che l’energia distruttiva che esse scatenano sta 
a fondamento della loro stessa forza costituente. Dalle guerre civili romane 
si origina l’evo augusteo, il principato. Soltanto la guerra civile rifonda ab integro . E non c’è dubbio che la Resistenza abbia prodotto un’autentica rifondazione anche del nostro Stato. 
Per questo la violenza era necessaria,
e così venne praticata, da una parte e dall’altra.

Chi in tali situazioni si illude ancora di poter agire attraverso le vie del compromesso (sacrosante in condizioni normali), chi si appella alla fraternitas , dimenticando che proprio questa è la ragione della spietatezza 
del conflitto, finirà “giustiziato” 
da entrambe le parti in lotta. Da molti anni ricordiamo la Resistenza esaltandone la dimensione costituente 
e cercando di rimuovere il suo essere in tutto e per tutto guerra civile. Inevitabile che ciò accadesse. Si può vivere solo dimenticando o mascherando i lutti più atroci. Ma ecco che oggi accade qualcosa che ci impone di fare ancora 
i conti con quel senso della guerra che ci illudevamo di aver superato per sempre. Non che la guerra come volontà di negazione dell’altro fosse scomparsa, ma riguardava le “periferie”.

Televisioni 
e media non avvicinano per niente, ma anzi trasformano in immagini di fantasia. 
Con quelle immagini noi non c’entravamo. La politica non poteva più comportare per noi anche l’“arte della guerra”. 
Non avremmo mai più avuto la necessità di impararla. E se in circostanze lontane da casa a una guerra si doveva pure partecipare, c’erano mercenari e professionisti per “esercitarla”. Bastava che le “spese militari”, come si dice, non fossero troppo salate. Per settant’anni l’Europa ha vissuto della “lieta novella” che politica e polemos avessero divorziato in eterno. E ora, ecco, essa tace, con imprevedibili conseguenze psicologiche e sociali.

La ragione di tale mutamento sta 
nel dilagare del “terrorismo”? No, 
il terrorismo sta cambiando o ha già cambiato natura e diventa un fattore della guerra tra entità sovrane. Si è, cioè, trasformato in quell’azione volta 
a incutere terrore al “civile”, programmaticamente perseguita dagli stessi Stati in lotta almeno a partire 
da Napoleone. Ma l’Is non è uno Stato, si dirà. Conta si dichiari tale, si “territorializzi”; che non sieda all’Onu importa solo a chi fantastichi ancora 
di un “diritto di guerra”. Proprio questo avverte l’europeo: che si tratta di guerra terroristica, e di una guerra in cui il dichiarante ufficiale odia il suo nemico come nella più perfetta guerra civile, e non teme in alcun modo né di morire né di uccidere. Torna quella tragica serietà della politica che aveva come suo criterio limite il poter morire per essa. Serietà che aveva animato tutta la Resistenza e dalla quale siamo lontani antropologicamente più ancora delle retoriche celebrative e delle loro umane, troppo umane dimenticanze. Preghiamo che questa pace solo conservativa 
ci venga risparmiata. Che il nemico attuale possa essere sconfitto senza dover arrischiare la sicurezza che essa ci ha garantito. Preghiamo.

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