domenica 20 ottobre 2013

LA DISCUSSIONE SUL NEGAZIONISMO. P. ODIFREDDI, Io, frainteso e calunniato, LA STAMPA, 20 ottobre 2013

Confesso che non avrei mai immaginato che La Stampa, un giornale per il quale ho scritto per anni, e i cui giornalisti mi conoscono da ancora più anni, potesse non solo prendere parte, ma mettere essa stessa in moto una «macchina del fango» che credevo appannaggio di ben altre testate. Ma tant’è, i luridi tempi in cui viviamo sono questi, e se un giorno a qualcuno salta in mente di lanciare su Twitter una «caccia al negazionista», tutti si accodano come pecore, senza manco fermarsi un attimo a verificare se l’accusa sia circostanziata, e se l’accusato sia credibile nella parte del colpevole.



Quel qualcuno è il giornalista Gianni Riotta, che come vicedirettore de La Stampa mi ha ospitato a lungo su queste pagine, e che mi conosce benissimo. Perché l’abbia fatto senza nemmeno chiedermi se veramente negassi l’olocausto e le camere a gas, senza nemmeno provare a immaginare se questo fosse consistente con l’immagine che si era fatto di me dalle mie parole, dai miei articoli e dai miei libri, e senza nemmeno rispondere alla mia stupefatta mail di richiesta di spiegazioni, è una cosa che interessa la sua coscienza, se ce l’ha. A me interessa capire come sia potuto nascere questo equivoco. E la risposta è semplice: una frase di 140 caratteri, perché più lunga chi usa Twitter non la capisce, è stata estrapolata ad arte da una discussione di migliaia di commenti relativi a un post sul mio blog. Nella discussione si parlava della verità storica, e chi fosse interessato può andare a vedere ciò che ho argomentato al riguardo. Nella frase incriminata, a proposito delle camere a gas, dicevo che «non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che uniformarmi all’opinione comune, pur essendo cosciente del fatto che di opinione si tratti».
Che il «popolo della rete» abbia potuto fraintendere una frase che, si può ammettere, non era un esempio di chiarezza, è comprensibile. Ma che due giornalisti come Riotta e Jacopo Iacoboni, al quale avevo spiegato a lungo cosa intendevo, abbiano potuto pensare che con «uniformarsi» intendevo «non credere», e che con «opinione» intendevo «falsità», sarebbe fare un insulto alla loro intelligenza. Dunque, hanno infangato volendo infangare, per motivi noti a loro ma solo intuibili a me. Elena Loewenthal si è subito aggiunta al coro, descrivendo il mio blog come una «calamita per antisemiti». Fortunatamente, i miei post e i relativi commenti sono visibili in rete, e chiunque può verificare che gli antisemiti sono arrivati dopo, e non prima, dell’accusa di negazionismo. Evidentemente, non erano al corrente delle mie supposte vedute, fino a che qualcuno non ha pensato di inventarsele e offrirgliele in pasto. Prima di allora il blog era uno degli spazi di discussione più aperti e seguiti del sito che lo ospita, immune dalle porcherie che le accuse hanno attirato, come gli escrementi attirano le mosche. La Loewenthal conclude melodrammaticamente il suo articolo, chiedendo: «Lasciatemi in pace con i miei milioni di morti». Ma quei morti non sono affatto suoi, più di quanto non siano ad esempio di Noam Chomsky o di Moni Ovadia: due ebrei che su ciò che riguarda Israele la pensano esattamente come me, e che sull’olocausto e le camere a gas la pensano esattamente come tutti noi, me compreso. Inoltre, l’olocausto non è stato solo un «crimine contro gli ebrei», ma «un crimine contro l’umanità»: dunque, quei morti sono tanto miei, quanto della Loewenthal e degli altri untori che mi buttano addosso il fango delle loro calunnie.

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