martedì 2 aprile 2013

CRISI POLITICA. IL COMMENTO DEL REGISTA DAVIDE FERRARIO. Il fratricidio come carattere nazionale, IL CORRIERE DELLA SERA, 2 aprile 2013


Caro direttore, l'odio fratricida è, per noi italiani, una pratica antica e quotidiana. È un odio che spesso prende le forme della contrapposizione politica, ma non è la politica che genera l'odio; semmai il contrario. Tanto è vero che l'odio più feroce non nasce per i nemici, ma per quelli che sono più prossimi. Basta pensare alla storia della sinistra italiana, per esempio, tutta segnata da dilanianti conflitti tra compagni: ognuno dei quali a un certo punto si è sentito depositario della verità e ha individuato nel vecchio amico l'avversario da distruggere con maggiore accanimento. Ma succede lo stesso a livello territoriale, a partire dalla vecchia consuetudine di avversare con più ferocia non lo straniero, ma quelli del paese limitrofo. E la storia del cattolicesimo è fatta di scismi, eresie, scomuniche. L'attuale vicolo cieco in cui si è impantanata la politica italiana ha radici antiche.



Chi, da poeta ma anche da lucidissimo pensatore, ha descritto tutto questo è Umberto Saba: «Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuto, in tutta la sua storia - da Roma ad oggi - una sola vera rivoluzione? La risposta - chiave che apre molte porte - è forse la storia d'Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... "Combatteremo - fece stampare quest'ultimo in un suo manifesto - fratelli contro fratelli". (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che - diventato chiaro a se stesso - finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio». È un odio, questo, che implica un pensiero: «Se le cose vanno male, è colpa di quell'altro». Teoria semplicistica, ma è da anni la posizione di principio che tengono tutti i partiti, anche di fronte all'evidenza contraria. E così le ultime elezioni non solo hanno confermato l'intuizione di Saba, l'hanno elevata al quadrato. Al di là di slogan e programmi che pochi leggono, ci si è prima di tutto schierati, come da troppo tempo accade, nel solito referendum pro o contro Berlusconi e pro o contro i «comunisti». Ma l'irruzione del Movimento 5 Stelle ha creato un ulteriore livello di divisione: quello del vaffa indiscriminato verso gli altri due schieramenti. «Tutti a casa», ripetono i grillini, senza differenze. Siamo così finiti nel vicolo cieco che ben conosciamo e che assomiglia tanto a uno dei labirinti verbali dell'antipsichiatria anni Settanta alla R.D. Laing: «Io odio te che odi me e vorrei distruggerti con l'aiuto di quegli altri, che però odiano entrambi». Ogni possibile accordo si arena davanti a un sentimento che misura il bene comune innanzitutto con l'annullamento dell'avversario.
Saba diceva anche un'altra cosa, nel suo ragionamento: che l'anomalia italiana, rispetto agli altri popoli europei, è che noi ci odiamo tra fratelli perché non abbiamo mai avuto il coraggio di uccidere il padre, liberandoci dal passato. Non abbiamo fatto rivoluzioni togliendo di mezzo re o papi (solo la morte di Mussolini porta un qualche peso catartico, nella nostra storia). Il padre resta la figura di riferimento per il cui favore i fratelli competono. In questo senso il ruolo di Giorgio Napolitano, al di là della funzione istituzionale, ha assunto in questa crisi un ruolo archetipico, da vecchio patriarca: ma, ahimè, e non per colpa sua, sempre più patologico. Incapaci di venire a capo del loro conflitto, i figli si appellano a un Padre che è l'unica figura a cui tutti (perfino Beppe Grillo, parrebbe) guardano con rispetto e speranza. E, in sottordine, ai «saggi», che ricordano tanto consessi tribali, più che democrazie avanzate (e, diciamo la verità, strutture culturali totalitariamente maschili). Comunque vada a finire, la soluzione della crisi avrà un carattere regressivo: non saremo noi figli a uscirne con le nostre forze. L'Italia è un Paese demograficamente vecchio ma allo stesso tempo immaturo. Paradosso che spiega certe idiosincrasie così difficili da capire per gli stranieri, abituati a una politica e a una cultura che muove verso il rinnovamento e non si fissa sul passato.
Riusciremo mai a guarire da una sindrome che trasforma non solo la politica ma qualsiasi assemblea condominiale in una faida tra guelfi e ghibellini? Chissà. Un altro grande interprete del carattere nazionale, Alberto Savinio, diceva che per quanto sembrino animati da feroci odi e passioni, «gli italiani sono incombustibili come il tegamino di coccio refrattario». Per noi, in fondo, nonostante lo strepito e le urla, tutto è immutabile. «La verità è che se gli Italiani dovessero vivere secondo la loro vera natura, essi vivrebbero inerti, impassibili e in istato di perfetta vegetatività...».
In perenne conflitto fratricida e insieme illusi di essere indistruttibili: l'effetto combinato di queste disposizioni del nostro carattere rischia, ormai, di essere fatale.

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