venerdì 29 marzo 2013

FRA TEOLOGIA E POLITICA. L'ULTIMO LIBRO DI MASSIMO CACCIARI. 2. ALESSANDRO ZACCURI INTERVISTA M. CACCIARI, Cacciari: chi mette il freno all’Apocalisse?, AVVENIRE, 27 febbraio 2013


Anche i Titani non sono più quelli di una volta. Tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico l’ambizioso Prometeo, tocca al fratello dello sconfitto, il prudente Epimeteo, governare le sorti degli umani. Il suo incarico sembrerebbe modesto, ma richiede in effetti una grande abilità tecnica: si tratta di impedire l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo. Attenzione al verbo. Contenere, trattenere. Frenare, insomma. Il potere che frena (in uscita da Adelphi, pagine 214, euro 13) è il titolo del saggio in cui il filosofo Massimo Cacciari torna su uno dei temi centrali della cosiddetta "teologia politica", ovvero quella corrente di pensiero, teorizzata fin dagli anni Venti da Carl Schmitt, che suggerisce di interpretare il divenire della Storia in prospettiva teologica. «Più andiamo avanti – ribadisce Cacciari – e più mi convinco che non c’è altro modo per cercare di comprendere il nostro tempo».

È per questo che bisogna partire da san Paolo?
«Dalla Seconda lettera ai Tessalonicesi, per l’esattezza: capitolo 2, versetti 6 e 7. Lì Paolo introduce un concetto del tutto originale, che sta all’origine di una lunga e complessa tradizione esegetica».

Stiamo parlando del misterioso "katechon"?
«Esatto: quel qualcosa, o qualcuno, che "contiene", trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo. In esso, fa intendere Paolo, agisce un potere che non può essere identificato nell’Anticristo, di cui appunto "trattiene" l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa. Su questo Paolo è molto chiaro: il katechonè destinato a essere "spazzato via", proprio perché non partecipa della speranza che deriva dalla fede».

Sì, ma allora da che parte sta?
«Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo ("con-tenere" significa "tenere dentro di sé") e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione».

Può essere più esplicito?
«Certo. Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione. Già i Padri della Chiesa, quando affrontano l’argomento, sono estremamente concreti, cercano corrispettivi precisi alle figure evocate da Paolo e dall’Apocalisse. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente è che il katechon sia l’Impero romano. Il problema, però, è che la forma imperiale non si accontenta di esercitare una potestas di tipo pratico-amministrativo. La sua ambizione, al contrario, è di conseguire un’auctoritas spirituale, ma così facendo entra in conflitto con la Chiesa. La quale, a sua volta, non è estranea alla funzione espressa dal katechon. Il ritorno di Cristo non può essere accelerato, i credenti non devono cedere all’impazienza, la loro missione è semmai di vegliare nell’attesa. Anche la Chiesa, dunque, "trattiene", per rendere possibile la conversione e fare in modo che il Figlio dell’Uomo, quando verrà, trovi la fede su questa terra».

La soluzione quale sarebbe?
«Un’alleanza tra potestas amministrativa e auctoritas della Chiesa. Sembrerebbe uno scenario medievale, ma a ben pensarci è lo stesso obiettivo al quale mirava l’idea di uno Stato moderno perfettamente laico, che lasciasse alla Chiesa il primato in campo spirituale. Il guaio, però, è che la potestas politica non può mai rinunciare alla sua ambizione imperiale, con relativo sconfinamento nell’auctoritas. Il potere, quando si riduce all’ordinaria amministrazione, diventa impotente. E questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo".

Una situazione apocalittica?
«Una potestas ridotta all’impotenza lascia emergere le tendenze dell’Anticristo. Ma non dobbiamo immaginarci una devastazione all’Apocalypse Now. I segni dell’affermarsi dell’Avversario sono molto differenti, già Paolo invita ad allarmarsi nel momento in cui si sente annunciare un tempo di pace e benessere. Il principale attributo dell’Anticristo, infatti, consiste nell’essere Placidus: le guerre contro di lui si sono concluse con la sua vittoria, nessuna forza più gli si oppone, la prosperità può diffondersi indisturbata. Regna l’ordine, e questa è la fine. A patto, si capisce, che si sia compiuto anche l’altro passo decisivo, e cioè l’apostasia della Chiesa, la secessio dei credenti dalla fede. È l’atteggiamento del Grande Inquisitore di Dostoevskij, il cui trionfo coincide, non a caso, con il ritorno di Gesù. Se l’Anticristo ha avuto la meglio, solo Cristo può tornare a dargli battaglia».

Ma noi, ora come ora, a che punto siamo?
«Che la nostra sia un’epoca apocalittica mi pare indubbio. Viviamo in una dimensione globale che neppure l’Impero romano aveva conosciuto e questo comporta una continua omologazione dei princìpi, dei comportamenti, dell’etica. Ci siamo lasciati alle spalle i totalitarismi, che si presentavano esplicitamente come forze prometeiche, anticristiche e , in quanto tali, chiamavano in causa il katechon, la cui funzione era esercitata da altri poteri, sia politici sia religiosi. Ora  è la volta di Epimeteo, l’Anticristo si mostra con il suo volto conciliante e il rischio è che la Chiesa non riesca a presentarsi come segno di contraddizione in un mondo ormai assuefatto all’indifferenza. Nietzsche aveva visto giusto: oggi davvero chi va per strada alla ricerca di Dio viene prima deriso e poi guardato con indifferenza».

E la Chiesa come può reagire?
«Continuando a pregare perché sia dato il tempo, anzitutto. Ma anche perseverando nella sua azione pedagogica nei confronti di quei figli che ancora non sanno di essere figli. Le conversioni immediate, come quella di Paolo, sono sempre possibili, però la missione della Chiesa appartiene principalmente all’ambito dell’educazione. Dell’attesa, quindi. E della pazienza».

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