domenica 10 novembre 2013

SOCIALISMO REALE E SOCIALISMO ALL'ITALIANA. P. OSTELLINO, Quegli elementi di socialismo che pesano ancora sul nostro Stato, IL CORRIERE DELLA SERA, 6 novembre 2013

Caduto il comunismo in tutto il mondo, stiamo riproponendo, in ritardo rispetto ai tempi e alla stessa cultura politica del Novecento, la condizione in cui si era venuta a trovare l’Unione Sovietica dopo la rivoluzione bolscevica: quella del «socialismo in un solo Paese ».



Da noi, peraltro, oggi, senza le forme istituzionali e il dominio politico che avevano caratterizzata l’Urss in senso totalitario. Siamo un Paese, bene o male, di democrazia liberale, capitalista e di mercato, ma che, ciò non di meno e allo stesso tempo, ha una cultura politica egemone e, spesso, persino una legislazione, che ne sono la negazione. Un paradosso storico, culturale, politico e istituzionale. In realtà, che ci piaccia o no, stiamo realizzando, ancorché in modo surrettizio, la Prima parte della nostra compromissoria Costituzione, quella dei diritti individuali condizionati dal perseguimento dell’«utilità sociale», cioè dal corrispettivo, analogamente astratto e ideologico, dell’«edificazione del socialismo» che, nella Costituzione sovietica, vanificava ogni diritto e ogni libertà. Prima parte che, nelle intenzioni del costituente comunista, avrebbe dovuto essere la premessa sociale dell’instaurazione, prima o poi, di un regime politico analogo a quelli imposti dall’Armata rossa ai Paesi dell’Europa centrale e orientale sul modello dell’Urss; ma contraddetta, con un salto logico e politico, dalla Seconda parte della stessa Costituzione—quella delle istituzioni democratico-liberali, espressione della volontà dei costituenti anticomunisti (cattolici, liberali, azionisti, repubblicani, socialdemocratici, ecc.) di mantenere l’Italia nell’ambito delle grandi democrazie occidentali contro eventuali tentazioni totalitarie—e confermata, inoltre, dall’inserimento del Paese nella sfera degli interessi strategici degli Stati Uniti.
La riproposizione del «socialismo in un solo Paese» è altresì, la conseguenza della realizzazione solo parziale o, se vogliamo, dell’incompleto successo dell’ipotesi gramsciana di egemonia, in vista della conquista del potere da parte del Partito comunista. «Secondo Gramsci, la supremazia globale non si manifesta solo mediante il dominio e la forza, ma anche tramite il consenso e la capacità di direzione ideale nei confronti delle classi alleate e società civile subalterne (...) Ora, se il primo si esercita attraverso gli apparati coercitivi della società politica, la seconda è fatta valere tramite gli “apparati egemonici della società civile, come la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, il cinema, ecc. (...) A differenza di Marx e di buona parte della tradizione marxista (v. Lenin), che identificavano la “società civile” con la sfera dei rapporti economici e strutturali dell’esistenza, Gramsci tende quindi a identificare la “società civile” con il complesso delle istituzioni sovrastrutturali che operano come momento di elaborazione delle ideologie e delle tecniche del consenso (...). In altri termini, il gruppo rivoluzionario, secondo Gramsci, dovrà sforzarsi di diventare dirigente già prima di conquistare il potere governativo e di essere dominante» (Nicola Abbagnano: Storia della filosofia, ed. Utet 1993, 2013).
La parziale realizzazione dell’ipotesi gramsciana si è concretata con la diffusione, da parte della cultura collettivista, statalista, dirigista, di matrice comunista, e praticata dalle cosiddette casematte della società civile, cioè dai luoghi di formazione della cultura politica del Paese; a suo tempo, conquistati dal Pci e governati, successivamente, da suoi compiacenti alleati. Ma il solo risultato che hanno ottenuto è che, nel corso degli anni, dal 1948 ad oggi, ci hanno portato alla squallida riproposizione del «socialismo in un solo Paese». Il suo successo solo parziale è dovuto, peraltro, alla mancata realizzazione di un dominio politico e al ricorso alla forza che hanno caratterizzato, invece, i regimi di socialismo reale.
Aveva, dunque, ragione Togliatti a immaginare la Prima parte della Costituzione come la sola e indispensabile premessa sociale, nelle condizioni date, dell’instaurazione del comunismo anche da noi quando ne fossero maturati i tempi. Gli hanno dato torto, con le circostanze storiche e strategiche, partiti e uomini che avevano inserito nella Carta, e le avevano difese negli anni, istituzioni a garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché, in assoluto, della democrazia. Quelle istituzioni di garanzia sono, finora, e fortunatamente, sopravvissute ai tentativi di conquista da parte di forze politiche illiberali che non hanno potuto, o saputo, trarre vantaggi decisivi dall’egemonia gramsciana.
Ora, però, quella stessa egemonia, che avrebbe dovuto avere la funzione di favorire la conquista del potere di dominio totalitario, è (apparentemente) giustificata dai costi di una estensione anomala della funzione pubblica, in una parola, dalla dimensioni dello Stato, e dalla conseguente necessità di reperire risorse per farvi fronte attraverso una fiscalità oppressiva. Ecco. Questa è oggi la vera causa, con quanto rimane dell’eredità gramsciana, dopo il fallimento e il crollo dei regimi comunisti nel mondo, della via al ripristino, da noi, del «socialismo in un solo Paese», cioè ad una sorta di surreale «comunismo senza comunisti».
L’egemonia gramsciana non avrebbe avuto, d’altra parte, tale e tanta incidenza sulla cultura politica nazionale se alcuni dei capisaldi della «società aperta»—dalla scuola all’editoria—non ne fossero stati complici. Non c’era alcun progresso nel comunismo, rispetto alla democrazia rappresentativa—bastava dirlo per scongiurarne il potere di attrazione—né ce ne sarà nell’anacronistica riedizione del «socialismo in un solo Paese». Solo che lo si sappia. Ora, anche se è forse tardi per porvi rimedio, permane, quanto meno, il dovere di denunciarne esiti e pericoli. È ciò che fanno, fra mille ostacoli, nella scuola e nell’editoria, i «quattro gatti» liberali che si oppongono ai conformisti in servizio permanente ed effettivo; ieri, a sostegno del fascismo, oggi del marxismo-leninismo o di quanto ne rimane.
Ma, dopo il fallimento storico del comunismo, è abbastanza mortificante constatare che i reduci politici del mito dell’Unione Sovietica, condannati dalle dure repliche della storia, e i cascami ideologici di un marxismo, mascherato approssimativamente da «buonismo», sopravvivano nel Paese di Machiavelli; che raccomandava di attenersi alla dura realtà «effettuale» e di non abbandonarsi all’idea di una buona realtà quale si vorrebbe che fosse; dell’umanesimo rinascimentale, di Cavour e del liberalismo risorgimentale e unitario. Non c’è davvero molto di cui essere orgogliosi—se non di un passato culturale troppo lontano—in questa nostra (disastrata) Italia d’oggi.
postellino@corriere.it

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