domenica 10 novembre 2013

PRIMARIE IN USA E IN ITALIA. R. FRANCO LEVI, Il «carro» di Renzi e le primarie in Usa, IL CORRIERE DELLA SERA, 6 novembre 2013

«Correre in soccorso del vincitore »: attribuita a Ennio Flaiano, l’espressione è diventata in questi giorni merce corrente per descrivere il crescente consenso che sta accompagnando la candidatura a segretario del Partito democratico di Matteo Renzi.



Si passano al setaccio le platee dei partecipanti ai suoi comizi, si individuano i personaggi che in passato si erano opposti al sindaco di Firenze e ora lo sostengono, si mettono a confronto le loro antiche dichiarazioni e quelle di oggi e si condanna tutto questo come spregevole opportunismo, malattia caratteristica della peggiore politica. È un errore. E non tanto per la classica e tutto sommato discutibile distinzione tra categorie della morale e della politica. Quanto perché, così facendo, non si coglie la normalità, direi quasi la salutare correttezza, del processo in atto. La corsa per la carica di segretario del Pd si concluderà il prossimo 8 dicembre con le primarie e solo quel giorno sapremo chi avrà vinto.
Importate per la prima volta in Italia otto anni fa per la scelta del candidato premier della coalizione di centrosinistra (allora si impose Romano Prodi, con 3.183.000 voti su un totale su un totale di 4.295.000) e di nuovo utilizzate per l’elezione a segretario del Pd nel 2007 (con la vittoria diWalter Veltroni) e nel 2009 (con l’affermazione di Pier Luigi Bersani), le primarie, come tutti ben sanno, sono il metodo con il quale negli Stati Uniti si attribuiscono le cariche politiche di vertice, a partire dalla presidenza. Pur tenendo conto delle differenze—negli Stati Uniti, primarie che durano un anno intero, da noi primarie in un giorno solo —, è all’esperienza americana che bisogna, quindi, guardare per cercare il termine di paragone sul quale valutare le cose di casa nostra. Ebbene, se osserviamo cosa succede dall’altra parte dell’Atlantico, vediamo che il «saltare sul carro del vincitore», il «band wagon effect», è la norma in questo tipo di competizione.
Tralasciando i dettagli che variano da partito a partito e da Stato a Stato, le primarie «made in Usa», infatti, funzionano proprio così. Ai nastri di partenza si presentano tanti candidati che, Stato dopo Stato, si affrontano in una serie di votazioni successive. Man mano che si accumulano i risultati dei diversi confronti, i candidati con i risultati peggiori si ritirano e quelli che sino a quel momento sono stati i loro sostenitori trasferiscono il loro appoggio sui candidati rimasti in lizza, sino al punto che la competizione si restringe a un duello a due dal quale in fine esce il vincitore.
Sono competizioni vere, nelle quali nulla si può dare per certo. Quando si presenta il caso, non è scontata neppure la conferma come candidato del presidente uscente. Harry Truman, che era diventato presidente nel 1944 alla morte di Roosevelt e che nel 1953 correva per un terzo mandato, fu costretto al ritiro dopo essere stato sconfitto nelle primarie del New Hampshire. Lyndon Johnson, presidente in carica, ritirò la propria candidatura alle primarie del 1968 in parte a causa del Vietnam ma anche, e forse soprattutto, per il timore di essere sconfitto da Robert Kennedy, poi assassinato a Los Angeles il 6 giugno, proprio nel giorno delle primarie in California. Nelle primarie del 2008, affrontate da senatore dell’Illinois, Barack Obama ottenne i voti necessari per essere nominato candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti solo al termine di un durissimo e prolungato testa a testa con Hillary Clinton. Dopo attacchi e scambi di accuse anche feroci con l’ancora potentissimo clan dei Clinton durati per tutto il tempo delle primarie, finalmente eletto presidente Obama volle proprio Hillary come segretario di Stato. E nessuno si scandalizzò per quella nomina che, anzi, fu vista come un segno di intelligenza da parte di entrambi.
Non un «correre in soccorso» del vincitore ma, piuttosto, la forma normale con la quale in una politica aperta si costruisce il consenso e si selezionano i leader. «Competion is competition » aveva detto, una volta, qualcuno che se ne intendeva: prima «scorre il sangue», poi chi vince ottiene il sostegno di chi ha perso. L’alternativa è la nomina decisa in circoli ristretti o imposta direttamente dall’alto. È questo il sistema che preferiamo?

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