venerdì 17 maggio 2013

POLITICI DA DIMENTICARE. INTERVISTA A WALTER VELTRONI, di MARCO DAMILANO, Veltroni: 'Caro Pd, non ti riconosco', L'ESPRESSO, 16 maggio 2013

Mi interessa che il Pd torni a essere il Pd. Se non c'è il Pd questo Paese è destinato a finire male», dice Walter Veltroni presentando in un'intervista all'Espresso il suo nuovo libro ("E se noi domani. L'Italia e la sinistra che vorrei", Rizzoli) con cui nelle prossime settimane girerà l'Italia. «Ho visto dissipare la più bella idea politica degli ultimi vent'anni, avviarsi verso la sua negazione».

La sconfitta elettorale
«In termini quantitativi è la più grave sconfitta della sinistra negli ultimi cinquant'anni. Tra il 2008 e il 2013 il Pd ha perso tre milioni e mezzo di voti. Non solo: 5 milioni di elettori hanno smesso di votare per il Pdl, non uno di loro è passato al Pd. Di fronte a questo il Pd avrebbe dovuto discutere a fondo, non dirsi cose autoconsolatorie e provare a mascherare il risultato».

Tutta colpa di Bersani?
«Non mi interessano i processi alle persone. Ma com'è potuto accadere questo disastro, nel momento più favorevole? La mia risposta è che si è rinunciato al progetto originale del Pd. Il Pd è nato con dieci anni di ritardo e con l'obiettivo di risolvere la più grande anomalia italiana: mai il riformismo è stato maggioranza in questo Paese. Aver rimosso questa missione, aver pensato che si potesse vincere corteggiando il centro o con la foto di Vasto, ha fatto venire meno la natura e l'ambizione del Pd. Credo che sia possibile conquistare un elettorato mobile con una proposta innovativa. Nel 2008, dopo un governo che solo il prestigio di Prodi aveva tenuto insieme, il giro delle piazze di Grillo lo feci io, recuperammo dodici punti e ottenemmo il 34 per cento».

Il governo Letta

«Il governo Letta è l'esito di una catena di errori del Pd: dopo le elezioni si poteva proporre un governo del presidente guidato da Emma Bonino, gradita a 5 Stelle e non contestabile dal Pdl. Invece si è andati avanti come se nulla fosse, fino alla tragedia dell'elezione del presidente, culminata con l'agghiacciante applauso per Prodi di elettori del Pd che poi non l'hanno votato nel segreto. Il governo Letta è una necessità, spero abbia successo, deve durare il tempo che serve per fronteggiare la crisi economica e riformare le istituzioni. Ma l'eccezionalità della situazione deve portare a una riforma straordinaria. Un passaggio simile a quello che portò alla Quinta Repubblica francese».

Il semi-presidenzialismo.
«Conosco bene le obiezioni: non si può fare il presidenzialismo in un Paese come l'Italia a rischio populista. Ma proviamo a capovolgere il ragionamento: e se il populismo fosse proprio il frutto dell'incapacità della politica di decidere? Le dittature nascono dai governi deboli, non dai governi forti, lo sostenne, ricordo nel libro, Piero Calamandrei, uomo di sinistra, alla Costituente. La forza della democrazia sta nella sua capacità di decidere e di controllare chi decide. Noi siamo un Paese paralizzato da poteri cresciuti nella debolezza del sistema politico, a partire da quelli criminali. Perché noi democratici dovremmo avere paura di dirlo? C'è meno democrazia in Francia o negli Usa? La principale minaccia per la democrazia è la frammentazione, l'instabilità, la lentezza, la vischiosità».

E' uno strappo. Ma come si fa ad approvarlo? L'agenda Letta è ben più modesta...
«Il governo dovrebbe presentarsi in Parlamento con una coerente ipotesi di riforma: semi-presidenzialismo, legge elettorale a doppio turno, abolizione delle province, fine del bicameralismo, riduzione dei parlamentari. Non aspetti oltre: l'anno del governo Monti è stato sprecato senza fare queste cose».

L'anti-berlusconismo.
«George Lakoff spingeva i democratici americani a non farsi dettare l'agenda da Bush. In Italia ci abbiamo messo fin troppo a capire cosa fosse il berlusconismo sul piano culturale, quali veleni letali stesse introducendo. Ma poi l'antiberlusconismo si è trasformato in esclusivo programma politico. Nel 2008 io non citavo Berlusconi perché volevo togliergli i voti. Il problema è sconfiggerlo cambiando il terreno del discorso, indicando un'idea di società. E' l'unico modo per farlo: Berlusconi vive di anti-berlusconismo, si alimenta dei suoi avversari per rinascere».

Renzi ha detto che non avendo intercettato gli elettori del Pdl, il Pd è stato costretto a fare un governo con gli eletti. Condivide?
«Condivido, ma per vincere l'operazione è più complessa: non devi solo conquistare i voti del Pdl, ma tenere anche i voti della sinistra».

Il modello Marchionne e il sindacato che deve cambiare

«La posizione di Marchionne è l'altra faccia di un sistema bloccato, la reazione, inaccettabile sui diritti sindacali, in assenza di dinamismo. Quanto ha impiegato il sindacato a firmare l'accordo sulla produttività? La contrattazione decentrata non è un'istituzione del diavolo. Serve una nuova alleanza che in un momento drammatico tenga unite le energie del lavoro senza riproporre schemi privi di senso. L'imprenditore è un lavoratore come gli altri stretto tra pressione fiscale e burocrazia. Che male ci sarebbe se i lavoratori partecipassero alla gestione delle imprese come nelle socialdemocrazie avanzate? Perché non tornare a lavorare per un sindacato unico?».

La segreteria Epifani e il congresso del Pd
«Guglielmo Epifani è figlio della tradizione di Di Vittorio, Lama, Trentin. La Cgil è sempre stata un passo avanti rispetto al partito nella capacità di immaginare forme nuove di difesa dei lavoratori nel quadro degli interessi generali. Quell'esperienza è vitale, va recuperata. Per tratto umano e per esperienza, Epifani è la persona giusta per ripristinare le regole interne e consentire un congresso svolto sulla politica e non sui nomi. Ma il congresso dovrà segnare una forte discontinuità. Sancire che è fallita una strategia politica e darsene un'altra, se non si vuole continuare a perdere».

Renzi non basta
«Renzi da solo non basta. E non basta la rottamazione. E' una parola che non mi è mai piaciuta, trasforma le persone in rottami. Se ne rende conto anche Renzi, pubblica un libro per andare oltre...».

Chiamparino?
«Ripeto: bisogna fare un congresso sulla politica e non sui nomi. Quello che è certo è che il Pd dovrà avere un'identità propria. Si è pensato che il Pd fosse mettere insieme ex dc e ex comunisti: in questo modo si è prodotto un ex Pd. Essere democratici non è una identità definita per risulta. Se ne sono accorti anche i socialisti europei che stanno pensando, su iniziativa Spd, di superare l'Internazionale socialista. Se penso a cosa mi dissero quando si propose l'Ulivo mondiale...».

La corsa per il Campidoglio
«Se me lo chiedono, farò campagna elettorale volentieri. Ma è una campagna diversa dalle precedenti: i muri sono pieni delle facce dei candidati, si fanno troppe iniziative di corrente. Alemanno è stato un cataclisma per la città. Le ha tolto l'anima solidale, sociale, colta, moderna».

Con Letta-Alfano potrebbe tornare il centrosinistra della Prima Repubblica: un grande centro con una sinistra residuale?
«Il pericolo c'è. Ma non per la sinistra, è un rischio per l'Italia. L'Italia non ha bisogno di continuismo, ma di una forte discontinuità. Non potranno garantirla il grillismo, il berlusconismo, il moderatismo, ma solo il riformismo. Senza riformismo l'Italia andrà a morire».


La versione integrale è in edicola sull'Espresso di venerdì 17 maggio


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