domenica 26 gennaio 2014

NUOVA LEGGE ELETTORALE RENZI-BERLUSCONI. E. SCALFARI, Il duopolio ai partitoni e il bavaglio ai partitini, LA REPUBBLICA, 26 gennaio 2014

QUALCUNO si ricorda la legge elettorale truffa, proposta dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati laici, i cosiddetti partitini? Ne dubito; sono passati sessant’anni da allora e molti degli attori di quella vicenda non ci sono più. Io ricordo bene: la legge fu sconfitta dall’opposizione di dissidenti da sinistra e da destra, tra i quali emergevano Codignola, Parri e Corbino. Eppure non era una grande truffa: attribuiva un premio del 15 per cento alla coalizione che avesse superato il 50,1 dei voti. Si votava in collegi uninominali, gli stessi con i quali nel 1948 la Dc aveva incassato il 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi.
Altri tempi, sembrano la preistoria. C’erano personaggi come De Gasperi, Togliatti, Ugo La Malfa e molti altri di analogo conio; al Quirinale c’era Luigi Einaudi, del quale Napolitano è un devoto cultore nonostante il suo passato di comunista (ma non marxista).




Oggi siamo alle prese con una riforma elettorale voluta da Renzi e da Berlusconi e diventata disegno di legge in pochi giorni, che cerca di realizzare il massimo di governabiltà sacrificando i criteri di rappresentanza. Il punto di frizione con i partiti minori e con i Cinque Stelle è proprio questo: attraverso un complicato gioco di soglie di sbarramento e di premi, le forze minori vengono di fatto ridotte al silenzio lasciando in campo i partiti maggiori. Come si può uscire da quest’imbroglio? Berlusconi se ne preoccupa poco o niente: voleva riguadagnare il titolo di salvatore della Patria e ce l’ha fatta.

Per lui è una posizione di importanza enorme che può avere ripercussioni anche sulle sue vicende personali. Ma per Renzi è diverso; lui deve assolutamente portare a casa il risultato. Se fosse battuto sarebbe un disastro e lo sarebbe anche per il Pd. Nei sondaggi quel partito supera il neo-salvatore della Patria di 12 punti, ma li perderebbe di colpo se Renzi cadesse sulla riforma elettorale. Il crollo dei consensi finirebbe col travolgere anche il governo Letta. Del resto la forza di Renzi è proprio questa: o vincete con me o con me affonderete. È questo l’imbroglio in cui ci troviamo.

A proposito del salvatore della Patria, credo sia giusto segnalare di nuovo un gesto di coraggiosa dignità che Repubblica
ha già registrato con un’intervista venerdì scorso. Si tratta di Pietro Marzotto che aveva chiesto da alcuni mesi l’espulsione di Berlusconi dall’associazione dai cavalieri del Lavoro, senza ottenere alcuna risposta. Per protestare contro questo silenzio Marzotto si è dimesso da quell’associazione e ne resterà fuori fino a quando un condannato per frode fiscale non ne sarà escluso. Finora l’esempio di Marzotto non è stato seguito da altri. Bel gesto egli ha fatto e brutto segnale il pesante silenzio degli altri associati. Cavalieri smontati da cavallo?
***
A me Matteo Renzi non ispira molta fiducia né come segretario del Pd né come eventuale presidente del Consiglio; le ragioni le ho più volte spiegate e non starò a ripetermi, riconosco però che la sua iniziativa ha dato una scossa al partito del quale è il leader e di conseguenza a tutta la politica italiana, governo compreso il quale ne aveva urgente bisogno.

La legge da lui presentata, tuttavia, è assai poco accettabile poiché — volutamente e quindi consapevolmente — cancella non soltanto i partiti minori avversari senza se e senza ma del Partito democratico, ma anche quelli disposti ad allearsi col Pd ed entrare a far parte d’una coalizione da esso guidata.

Il gioco delle soglie d’ammissibilità, da quella del 12 per cento a quella dell’8 e del 5, rischia di escluderli dall’eventuale premio previsto per chi raggiunge il 35 per cento dei consensi. Se infatti quei partiti non superano la soglia del 5 per cento non parteciperanno ai voti ottenuti dalla coalizione. Sono soltanto portatori d’acqua che non ricevono alcun tipo di ringraziamento dal partito maggiore che, anche con i loro voti, ha sconfitto l’avversario o comunque diventerebbe il partito d’opposizione. Ai portatori d’acqua non resta nulla fuorché gli occhi per piangere.

Con questa legge, come è uscita dalle stanze del Nazareno, non restano in campo che Pd, Forza Italia e l’incomunicabile Grillo che probabilmente sarà beneficiario di quegli elettori che saranno schifati dal duopolio Renzi-Berlusconi e dalla loro riaffermata e reciproca sintonia.

In una situazione di questo genere restano due punti fermi: la libertà costituzionalmente affermata del mandato parlamentare al quale non si può opporre alcun vincolo e la necessità che Renzi rimanga al suo posto di segretario del Pd per l’esistenza stessa di quel partito.

La legge elettorale si trova ora all’esame del Parlamento che è libero di pronunciarsi. Se viene rivista in alcuni punti essenziali Renzi deve accettarne il risultato e restare al suo posto; dimettersi da segretario avrebbe infatti le stesse conseguenze d’una scissione del partito che nelle primarie ha votato massicciamente per lui.

Un conto è il partito, un conto è il Parlamento. Il primo è una libera associazione, il secondo è un organo istituzionale sul quale si fonda la democrazia rappresentativa. Il primo è depositario di una sua visione del bene comune, il secondo è titolare dell’interesse generale e non ha nessun leader ma soltanto i propri organi previsti dai suoi regolamenti. I leader dei partiti non
hanno in Parlamento alcun potere salvo la propria autorevolezza. Ugo La Malfa ai suoi tempi era più autorevole in Parlamento di quanto non lo fossero Rumor o Piccoli o De Martino o Mancini quando erano segretari della Dc o del Psi e guidavano partiti dieci o cinque volte più forti dei repubblicani i cui voti alla Camera oscillavano tra i 5 e i 20, su 630 membri.

Renzi deve dunque restare e far digerire a Berlusconi il nuovo schema di legge approvato dalla Camera, sempre in attesa che il Senato sia riformato come è necessario fare.

La legge più appropriata deve dare il peso che merita al criterio della rappresentanza e diminuire — non certo abolire — il criterio della governabilità.

La soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali, innalzare la soglia prevista per ottenere il premio
di maggioranza al 40 per cento, abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in proporzione la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli.

Più o meno sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile nell’interesse della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi fa bene a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e mafie, come è spesso avvenuto in passato.

Se Berlusconi non ci sta, il Pd si appelli a tutti i parlamentari di buona volontà e se non ci saranno altre soluzioni che il voto, si voterà con la proporzionale che prevede collegi e non liste. E vinca il migliore.
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Alcuni osservatori ed editorialisti di altri giornali hanno scritto che non esistono “governi amici” se non nei casi di emergenza. I governi amici cioè non sono altro che un commissariamento efficace e destinato ad esser breve.

Su questo punto — che da molto tempo ritengo fondamentale per la democrazia rappresentativa — la mia opinione è completamente diversa; sostengo infatti (e lo sostengo dai primi anni Ottanta del secolo scorso) che il governo è titolare del potere esecutivo e in quanto tale è uno dei tre poteri dello Stato a somiglianza del Parlamento e dell’Ordine della magistratura. Quando un uomo politico, membro del Parlamento o tecnico, diventa presidente del Consiglio o ministro o sottosegretario, quale che sia la sua provenienza egli rappresenta un potere dello Stato. E poiché il governo ha bisogno della fiducia del Parlamento, esso è appunto amico della maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma autonomo da essa. Tiene conto della visione del bene comune di quella maggioranza, ma deve sempre privilegiare l’interesse generale e quindi lo Stato che in sé lo riassume.

Questo sostenne Enrico Berlinguer nell’intervista data al nostro giornale nel 1981 e questa egli chiamò “questione morale”. In questo modo si accresce l’autonomia del governo e del Parlamento dai partiti determinando così la nuova natura delle persone che ne fanno parte. La visione della democrazia rappresentativa qui esposta prevede un rafforzamento del potere esecutivo e soprattutto di chi ne è il titolare, così come un rafforzamento del Parlamento nei suoi poteri di controllo della pubblica amministrazione.

Prevede anche una diversa concezione delle magistrature amministrative rispetto a quella ordinaria e quindi una profonda riforma sia della Corte dei Conti sia soprattutto del Consiglio di Stato. Ieri Galli Della Loggia ha documentato sul
Corriere della Sera l’invadenza soffocante della burocrazia che si autotutela anziché essere il braccio armato del potere esecutivo. Concordo interamente e non da oggi con questa tesi. Bisogna disboscare e semplificare la pubblica amministrazione. Questa è la madre di tutte le riforme, senza la quale le altre restano barchette di carta nell’acqua, sulla quale a stento galleggiano prima di disfarsi.

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