venerdì 10 gennaio 2014

POLITICA E VIOLENZA. IL CASO CALABRESI IN TELEVISIONE. A. COLOMBO, Gli anni spezzati, la frase che manca, IL MANIFESTO, 9 gennaio 2014

a sto­ria la scri­vono i vin­ci­tori, e la tor­cono a pro­prio uso e pia­ci­mento. Il fat­tac­cio è noto, non c’è da sbi­got­tire o fin­gere scan­da­liz­zata sor­presa. Ai vinti, fin­ché non sono afoni, spetta il com­pito, sovente ingrato, di con­fu­tare e cor­reg­gere e ten­tare di impe­dire che le ver­sioni addo­me­sti­cate del pas­sato s’impongano come senso comune per i posteri. A volte gli riesce.



Gli anni spez­zati, il brutto film-tv dedi­cato da Raiuno al com­mis­sa­rio Luigi Cala­bresi stu­pra la sto­ria recente di que­sto Paese. Occorre segna­larlo senza strilli, senza fin­ger­sene stu­piti e, pos­si­bil­mente, senza attac­carsi a par­ti­co­lari in que­sto caso irri­le­vanti come «lo spe­ci­fico fil­mico» o lo scarso spes­sore psi­co­lo­gico dei per­so­naggi. Non è di Re Lear che qui si tratta né del Cit­ta­dino Kane, ma di un com­mis­sa­rio ammaz­zato per strada, san­gui­noso epi­logo di una sto­riac­cia che più tor­bida non si poteva e, allo stesso tempo, alba tra­gica di una fase sto­rica che di tra­ge­die ne avrebbe con­tate a mazzi.
Lo scopo del regi­sta Gra­ziano Diana non era pro­ble­ma­tiz­zare la figura della vit­tima: era san­ti­fi­care il mar­tire. Nulla di strano, dun­que, se il com­mis­sa­rio Cala­bresi appare il primo, se non l’unico, ad annu­sare il mar­cio, a subo­do­rare la mano fasci­sta die­tro la mat­tanza, se arriva addi­rit­tura a indi­vi­duare un pro­get­tato golpe e per­sino indica le respon­sa­bi­lità (peral­tro tutt’altro che accer­tate) dell’allora pre­si­dente del con­si­glio Rumor Mariano. Non si può chie­dere obiet­ti­vità a un san­tino in forma di filmetto.
Da una pro­du­zione sov­ven­zio­nata in parte dalle forze di poli­zia non si può nep­pure pre­ten­dere che dipinga le mede­sime come gente abi­tuata a usare la mano pesante, spesso a spro­po­sito. Giu­sto nella fase che nella fic­tion occu­pava quasi per intero la pun­tata ini­ziale, pri­ma­vera 1969, quella delle prime bombe, capitò ai ragazzi in gri­gio­verde di stec­chire due mani­fe­stanti a Bat­ti­pa­glia, e pochi mesi prima era stato il turno di due brac­cianti ad Avola. Particolari.
È già grasso che cola se almeno gli api­cali, al secolo i dot­tori Guida e Alle­gra, ci fanno la figura dei pesci in barile e di chi serra gli occhi per non vedere. C’è per­sino il caso che qual­che imberbe, alle prese per la prima volta con quella non lon­ta­nis­sima epoca, si fac­cia l’idea che ai tempi la poli­zia demo­cra­tica, almeno nei suoi ver­tici, forse tanto demo­cra­tica non era. Anche se non era certo que­sto il con­cla­mato intento degli autori-apologeti.
Tutto ciò andava messo nel conto già in par­tenza. La fal­si­fi­ca­zione gros­so­lana della verità sto­rica va rin­trac­ciata altrove, non nell’aura sacrale che cir­conda la poli­zia in genere e il pro­ta­go­ni­sta in par­ti­co­lare. La strage del 12 dicem­bre 1969 lacerò le coscienze più di qua­lun­que altra tra­ge­dia della sto­ria repub­bli­cana non tanto per l’enormità del delitto quanto per il ruolo di coper­tura, com­pli­cità, con­ni­venza e depi­stag­gio che gio­ca­rono subito dopo, e poi per anni, le isti­tu­zioni dello Stato: tutte e cia­scuna. La mon­ta­tura a freddo con­tro gli anar­chici. La morte in que­stura di un pove­rac­cio che non c’entrava niente e che era a tutti gli effetti dete­nuto ille­gal­mente, Pino Pinelli, pre­ci­pi­tato dalla fine­stra dell’ufficio del dot­tor Cala­bresi in corso d’interrogatorio. Le igno­bili men­zo­gne con cui la poli­zia, com­mis­sa­rio incluso, spiegò il fat­tac­cio: quel «balzo felino» verso il vuoto con tanto di elo­quente urlo, «È la fine dell’anarchia», che dalla sce­neg­gia­tura sono scom­parsi come da una foto sbian­chet­tata. Le con­clu­sioni della magi­stra­tura su quel miste­rioso decesso: deru­bri­cato da sui­ci­dio a non meglio spie­gato «malore attivo», e se qual­cuno capi­sce cosa signi­fi­chi è un cam­pione. Le impli­ca­zioni del ser­vi­zio segreto e l’aiuto offerto dallo Stato all’agente Gian­net­tini per­ché fug­gisse all’estero. Lo spo­sta­mento del pro­cesso dalla sua sede natu­rale a un porto delle neb­bie calabrese.
Tutto que­sto non venne fuori gra­zie alle intui­zioni di qual­che one­sto com­mis­sa­rio, ma sulla base di una con­tro­in­chie­sta svolta dal movi­mento di que­gli anni. Le innu­me­re­voli bugie non furono sma­sche­rate da qual­che inec­ce­pi­bile ser­vi­tore dello Stato ma da chi lo Stato com­bat­teva. La mon­ta­tura crollò sotto i colpi di un’opinione pub­blica che, per la prima volta, si armava degli stru­menti della con­tro­in­for­ma­zione e della mobi­li­ta­zione dif­fusa. La stessa cam­pa­gna con­tro il com­mis­sa­rio Cala­bresi non fu il frutto di una can­ni­ba­le­sca sete di lin­ciag­gio, fu il ten­ta­tivo di otte­nere una verità che il potere, futura vit­tima inclusa, inten­deva a ogni costo celare. Di tutto que­sto nel film dell’Istituto Luce andato in onda su Raiuno non c’era trac­cia. Per que­sto non c’erano tracce né di sto­ria né di verità.
Passi. La pro­pa­ganda è pro­pa­ganda: non le si chie­derà di essere altro. Ma nelle scritte finali, quelle che ricor­dano gli esiti di quelle vicende, i pro­cessi in cui sono stati con­dan­nati i lea­der di Lotta con­ti­nua per l’omicidio Cala­bresi, quelli nei quali non è mai stato con­dan­nato nes­suno per la strage, non c’è nep­pure una fra­setta scarna per segna­lare che con­ti­nua a cam­peg­giare il buio anche sulla morte di Pino Pinelli, fer­ro­viere anar­chico e galan­tuomo, arri­vato in que­stura sul pro­prio moto­rino, dete­nuto oltre i limiti di tempo con­sen­titi dalla legge, pre­ci­pi­tato chissà come, vili­peso e offeso nella sua memo­ria a suon di bugie immonde da chi era depu­tato a cer­care la verità. È l’assenza di quella frase a essere dav­vero imperdonabile.

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