venerdì 10 gennaio 2014

FILOSOFIE POLITICHE. T. NEGRI, L’agire comune e i limiti del Capitale, EURONOMADE, Intervento alla Universitaet der Kunst di Berlino, 25 ottobre 2013

1.  È nel secondo dopoguerra che si afferma l’intuizione di Pollock – elaborata nell’epoca weimariana – che il mercato capitalista non possa essere considerato in maniera semplicista e retorica come libertà (se non addirittura anarchia) di circolazione e realizzazione del valore delle merci bensì al contrario e fondamentalmente come unità di comando sul livello sociale, come “pianificazione”. Questo concetto socialista, aborrito dal pensiero economico capitalista, rientrava gloriosamente fra le categorie della scienza economica. Il concetto di “capitale sociale” (e cioè di un capitale unificato nella sua estensione sociale, dentro e al di sopra del mercato ed inteso come dispositivo di garanzia del funzionamento del mercato stesso), insomma come sigla di una effettiva direzione capitalista della società, viene sempre più largamente sviluppato.


Particolarmente importante da questo punto di vista è il dibattito che si svolge nella sinistra comunista occidentale, con riferimento all’Unione Sovietica. La dissidenza operaista nel troskismo elabora negli anni 40 il concetto di “capitalismo di stato” per definire il regime sovietico, assumendo il Termidoro della Rivoluzione Russa non come passaggio contingente nella transizione al comunismo ma come funzione specifica e progressiva della riorganizzazione stessa del capitalismo maturo. Nel dibattito italiano degli anni 50, a fronte della modernizzazione capitalista nel periodo della ricostruzione, il concetto di “capitale sociale” viene elaborato in particolare da Raniero Panzieri – traduttore italiano del secondo volume del Capitale di Marx e fondatore dei Quaderni Rossi. È sulla base dell’analisi dei processi di circolazione del capitale che Panzieri sviluppa il concetto di “capitale sociale”, demistificando le concezioni del “libero-mercato” e recuperando, oltre a quella citata dissidenza troskista, anche elementi del pensieroliberal europeo – che, con Keynes, del capitale sociale e della pianificazione monetaria aveva fatto il centro della programmazione democratica nello sviluppo fordista. Ma è soprattutto la Scuola di Francoforte (sulle orme di Pollock) che assume il concetto dello sviluppo capitalistico come totalità e progressivamente forma la teoria della “sussunzione della società nel capitale” – sia da un punto di vista strutturale (l’intera società compresa nel dominio capitalista) sia dal punto di vista spaziale (dall’imperialismo al sistema-mondo) sia (con più fine intuizione) come processo continuo di traduzione reciproca delle tecnologie e delle trasformazioni antropologiche. È su questo complesso terreno, a fronte di questa ontologia sociale e dinamica che la tematica dell’emancipazione e le pratiche conseguenti sono state proposte.
Di contro, e fuori da quella forte metodologia materialista, nel marxismo occidentale tra le due guerre e nell’immediato dopo guerra, e negli epigoni di Francoforte (dimentichi di quell’altra così ricca antropologia che era stata anticipata) lo spazio dell’emancipazione è piuttosto costruito su (meglio, ridotto ad) un orizzonte morale (etico) e quello della liberazione è definito come senz’altro utopico. S’impone una prospettiva idealista. Le conseguenze della teoria del “capitale-sociale” vengono assunte in una dialettica che non rivive l’esperienza dello sfruttamento. Se man mano il capitale sembra costituire l’inumano, si racconta, e l’Aufklaerung si è tradotto nel suo opposto, all’interno di questa immiserita lettura nasce allora una tradizione che considera l’emancipazione o la liberazione come un “fuori”. Siamo nel regno della metafisica, laddove il comunismo si presenta ormai come prodotto di un pensiero che in maniera assoluta realizza l’universale oppure come riflesso inoperoso di un essere sottratto alla storia. Badiou e Agamben hanno oggi ripreso quelle vecchie frustrazioni, sottraendo così il desiderio alla vita, senza avvertire che quelle illusioni consegnano le lotte per l’emancipazione all’impotenza ed alla sconfitta, ad un destino di obbedienza e di dolore.
Riprendiamo qui, invece, il pensiero degli operaisti. In Marx, il concetto di capitale viene sempre dato, contro ogni posizione idealista che ne consolidi unitariamente la figura, come “rapporto sociale”. Il capitale, il capitalismo, le dimensioni del comando sociale ecc. non possono essere date come totalità compiuta: la sussunzione capitalistica del sociale è la sussunzione di una contraddizione, di un rapporto antagonista che permane. Ma v’è di più: ogni epistemologia dello sviluppo capitalistico non può che darsi a partire da una posizione antagonista all’interno dello sviluppo stesso. L’analisi è sempre “dentro” e per esser dentro sarà “contro”. E se il comando sociale implica sempre un altro sul quale esercitarsi, questo rapporto è “intransitivo”, rifugge ogni soluzione della dialettica, ogni superamento del movimento antagonista, impone un movimento di resistenza non solo etico ma epistemico. Ne vengono alcune conseguenze, che qui appuntiamo e sulle quali torneremo in seguito. La prima è – su un livello “macro” – quella che ci permette di interpretare lo sviluppo (e le crisi) del capitalismo come un processo antagonistico la cui dinamica è segnata da continue, seppur diverse, intensità conflittuali. C’è sempre chi vince e chi perde, dentro questo processo aperto ed indefinito. La seconda conseguenza, sul livello “micro”, è rivelata dal continuo modificarsi della composizione sociale dei soggetti, sia dal punto di vista tecnico che politico – le densità diverse del rapporto capitalistico ne spingono le contraddizioni verso figure sempre più singolarizzate ed irriducibili. La terza conseguenza consiste nel fatto che, dalla relazione fra intensità e densità proprie dell’antagonismo, sgorgano nuove qualità dei soggetti che partecipano allo sviluppo. Quando, come avviene nelle società postfordiste, il rapporto sociale che costituisce il capitale, occupa la società intera e ne determina la produttività, quando la produttività diventa cognitiva, immateriale, affettiva, cooperativa ecc, insomma “produzione di soggettività”, allora lo scambio si fa ontologico ed assistiamo ad un approfondimento dell’antagonismo che investe i soggetti – in particolare le figure del lavoro vivo che sempre di più si riconoscono capaci di appropriarsi porzioni di capitale-fisso e di sviluppare autonomamente, su base cooperativa, efficacia produttiva.
2. Prima di avanzare nella discussione, ci sia permesso di insistere qui sull’importanza del pensiero foucaultiano nel far procedere in questo senso la ricerca. Esso è stato fondamentale sia nel ridefinire lo sviluppo capitalistico come  sviluppo di un rapporto “intransitivo” fra biopoteri e resistenze soggettive, sia nell’introdurre all’analisi delle trasformazioni antropologhiche che conseguono a questa intransitività del rapporto. La resistenza (ripiegando su se stessa, producendo soggettività autonome) si è vieppiù configurata come produzione di singolarità e le istanze ontologiche di singolarizzazione, che Deleuze aveva così nettamente definito, hanno trovato concretezza nella teoria foucaultiana del “dispositivo”. Il dispositivo è la tensione produttiva che è impressa al soggetto, è la tendenza allo sviluppo della produzione di soggettività dentro processi cooperativi ed alla loro metamorfosi collettiva. Il dispositivo foucaultiano è unconatus macchinico ed una cupiditas produttiva che spingono avanti l’autonomia dei soggetti nella resistenza al capitale – dentro e contro, dunque, la relazione capitalista. Quando si parla del marxismo di Foucault si parla di questa macchina di immanenza che ritrova, non più nelle strutture industriali della lotta di classe ma nella consistenza sociale del dominio capitalistico, la potenza della resistenza, della rottura, dell’alternativa. È un nuovo mondo che diventa reale, contro il biopotere si pone la creatività biopolitica.
3.  Teniamo ora presenti le conclusioni tirate al punto 1 e cerchiamo finalmente di approfondire il tema “limiti del capitalismo”.
Nel terzo volume del Capitale, Marx dichiara che è il capitale stesso il limite del capitalismo. Giunge a questa affermazione dalla dimostrazione della caduta tendenziale del saggio di profitto nello sviluppo della composizione organica del capitale. Se la valorizzazione capitalista (e quindi il profitto) è data dall’impiego di “lavoro vivo” (e dallo sfruttamento/dall’estorsione della sua creatività), quanto più si afferma la meccanizzazione del lavoro (e quindi la valorizzazione si sposta e si appiattisce sugli elementi costanti del capitale), tanto meno il valore del capitale sarà crescente perché l’impiego (lo sfruttamento) della forza-lavoro sarà diminuito.
Nell’Ottocento e nel primo Novecento questa legge è stata spesso interpretata come catastrofica per lo sviluppo capitalistico. Essa non ha tuttavia funzionato in questi termini: il limite non si è mostrato in relazione ed a misura dell’allargamento dell’accumulazione tecnologica del sistema capitalistico e la trasformazione delle soggettività messe a lavoro ha piuttosto allargato che ristretto il campo dell’accumulazione, dello sfruttamento e del comando. Questo non significa che il limite sia scomparso – esso permane e i capitalisti sempre ne sentono drammaticamente l’imminenza – ma questo limite si è spostato e rilocalizzato a fronte delle nuove soggettivazioni prodotte. Ne viene che, come abbiamo già ricordato ripensando il contributo della scuola di Francoforte, il carattere antagonista dello sviluppo capitalistico non può essere riconosciuto né rivelato sul terreno oggettivo: esso può essere solo interpretato quando si guardi a quelle nuove soggettività che lo sviluppo ha prodotto – o, se volete, alla materialità delle nuove figure antropologiche, singolari e soggettivamente rilevanti – insomma alle trasformazioni antropologiche introdotte dallo sviluppo capitalistico stesso, alle mutazioni della forza-lavoro, e alla nuova dialettica tra forza-lavoro immateriale e riappropriazione di capitale-fisso.
Vorrei con questo dire che se la catastrofe capitalista legata alla caduta del saggio di profitto non si è data, ciò non è dovuto alla potenza capitalista di evitarla attraverso successive ondate di innovazione tecnologica, di espansione territoriale e di adeguazione e trasformazione degli strumenti di comando (la rilevanza del comando finanziario rispetto alle politiche industriali ne è l’ultimo esempio). La catastrofe è stata piuttosto riconfigurata e rinviata attraverso il trasferimento della capacità di produrre e di accumulare dai padroni agli operai; dalla potenza del capitale-costante alla diffusione dei processi di riappropriazione proletaria di capitale-fisso. Il limite del capitalismo è qui rivelato dall’estensione del suo dominio, dal fatto di aver sussunto il globo, ma in questo modo, nel corso di questo processo, dall’essere stato costretto a cedere ai produttori sempre più singolarizzati, sempre più forti nella loro autonoma cooperazione, la capacità di esistere e di produrre fuori dall’ossessione omologante del comando (capitalistico) e di costruire, caoticamente ma in maniera alternativa, la loro ontologica indipendenza.
4. Perché rinasce oggi il problema del “limite del capitalismo”?  Sembra a prima vista che il problema si ponga semplicemente sul terreno politico, e cioè che esso nasca dalla crisi del rapporto tra sviluppo capitalistico e democrazia, cioè dalla crisi dello Stato democratico, dello Stato di diritto, rappresentativo e parlamentare. Sono davvero incompatibili capitalismo e democrazia intesi dal punto di vista costituzionale? Lo sono e non lo sono: quello che è certo, è che, stando alle attuali condizioni, il capitale non è compatibile con una democrazia egualitaria e progressiva. La crisi della social-democrazia va probabilmente letta su questo terreno.
Queste considerazioni sono tuttavia insufficienti a definire le difficoltà che oggi si presentano nel rapporto capitalismo-democrazia. È fuori dubbio, infatti, che la democrazia costituzionale è in difficoltà quando si confronta alle istanze di eguaglianza che nascono da un mondo produttivo sempre più cooperativo, e che l’ordine economico della proprietà privata è esso stesso in difficoltà quando si confronta a quelle istanze del “comune” che sempre di più, nell’attuale condizione produttiva, insorgono. Si tratta di forza-lavoro cognitiva che non si consuma nell’uso e che si implementa nella cooperazione, che non è utilizzabile se non nella sua composizione cooperativa e dinamica, nella sua “eccedenza” – dunque – a fronte di ogni misura e nella sua autonomia da ogni comando estrinseco. Questo è il carattere “comune” della forza produttiva attuale – linguistica, affettiva, cognitiva, immateriale e cooperativa. L’ordine economico dell’individualismo possessivo e della proprietà privata non ha più ormai alcuna consistenza ontologica. Su questo punto, costituzionalismo moderno e mondo della vita si scontrano in maniera irriducibile. Concludiamo dunque che questo rapporto è in crisi, almeno per due ragioni, che vanno molto al di là della crisi dello Stato di diritto: la prima è che il denaro ha sopravanzato il lavoro; la seconda è che la tecnica ha sopravanzato la vita.
5.  Al termine del nostro intervento noi vedremo come queste due contraddizioni trovino la loro causa nella tendenziale rottura dello stesso rapporto di capitale: l’uno del potere, della moneta, del capitale, si è diviso in due e non può essere ricompattato. Ma prima di considerare questo elemento di fondo, apriamo la discussione sulla superficie problematica fin qui approssimata.
Che il denaro abbia sopravanzato il lavoro risulta chiaro quando si analizzi la struttura del capitale finanziario: esso ha introdotto chiavi di controllo della forza lavoro che, oltre ad estendersi socialmente, pongono il rapporto di capitale fuori da ogni misura materiale. Il profitto si distacca in maniera abissale dal lavoro, la legge del valore-lavoro è completamente dissolta. La globalizzazione interviene su questa tendenza, distendendola sullo spazio mondiale e rendendola ancora più incontrollabile.
È il possesso di moneta – la convenzione finanziaria – che si pone come norma regolatrice delle attività sociali e produttive e, quindi, come accesso ad una “realtà proprietaria” la cui efficacia si basa ormai solo sulla più arbitraria funzione monetaria. La proprietà diventa cartacea, monetaria o azionaria, mobile e/o immobiliare, ha natura convenzionale e giuridica. André Orléan e Christian Marazzi – due autori che ritengo fondamentali nella presente congiuntura – hanno insistito opportunamente su questa trasformazione. Si tratta di considerare la convenzione finanziaria come un comando indipendente da ogni determinazione ontologica: questa convenzione fissa e consolida un “segno proprietario” (nei termini della “proprietà privata”) e regge anche quando si presenti come “eccedenza” non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del valore-lavoro ma anche in riferimento a quell’“anticipazione” e a quell’“incremento” continui che le sono proprie nell’esercitare la captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare sul livello globale. Sia chiaro dunque che, in questa nuova configurazione della regola proprietaria, permane la base materiale della legge del valore. E tuttavia non si tratta di lavoro – nel leggere la legge del valore – individuale che diviene astratto, ma di lavoro immediatamente sociale, comune, come tale direttamente sfruttato dal capitale. La regola finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovo modo di produzione il comune è emerso come potenza eminente, come sostanza dei rapporti di produzione, e va sempre più invadendo ogni spazio sociale come norma di valorizzazione. Il capitale finanziario insegue questo estendersi del comune, vuole tradurlo direttamente in profitto, incalza la rendita mobiliare e immobiliare e le anticipa come rendita finanziaria. Bene dice un altro economista, Harribey, discutendone con Orléan: se il valore non si presenta più qui in termini sostanziali, non si mostra neppure come una semplice fantasmagoria contabile; è piuttosto il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo, che si sviluppa sempre più intensivamente ed estesamente. Il denaro ha dunque sopravanzato il lavoro e ormai  lo guarda come una spiaggia lontana alla quale non sarà necessario approdare – nell’illusione che questa astrazione possa durare, che la corruzione dei valori e la speculazione monetaria possano sempre avanzare.
Ed in secondo luogo, la tecnica ha sopravanzato la vita. Quando si dice questo s’insiste su due elementi: il primo riguarda la dissoluzione dell’omogeneità funzionale che l’attività industriale determinava tra sviluppo tecnologico e sviluppo della forza-lavoro. Di contro, oggi, all’interno delle strutture produttive (non più solo industriali) la soggettivazione della forza-lavoro si dà in maniera sempre meno risolubile nel comando produttivo. Non si assiste infatti più semplicemente al furto del plus-lavoro da parte del capitale-costante, si assiste parallelamente all’appropriazione di capitale-fisso da parte della forza-lavoro. Il comando tecnologico non riesce più a mantenere fermo il rapporto con l’autonoma socializzazione cooperativa del lavoro. Siamo qui in faccia ad un primo paradosso. Esso riguarda la produzione e consiste nel fatto che il capitalismo finanziario rappresenta la forma più astratta e distaccata di comando nel momento stesso in cui concretamente investe la vita intera. La “reificazione” della vita e l’“alienazione” dei soggetti vengono prodotte da un comando produttivo che è – nel nuovo modo di produrre, organizzato dal capitale finanziario – divenuto del tutto trascendente, sopra una forza-lavoro cognitiva – essa, tuttavia, quando è obbligata a produrre plusvalore, proprio perché cognitiva, immateriale, creativa, non immediatamente consumabile, si rivela autonomamente produttiva.
Il paradosso si presenta in maniera piena quando si consideri che, essendo la produzione essenzialmente fondata sulla “cooperazione sociale” (sia informatica, sia nelle pratiche di cura, sia nei servizi etc.), la valorizzazione del capitale non si scontra più semplicemente con la massificazione del “capitale variabile” ma con la resistenza e l’autonomia di una moltitudine che si è riappropriata di una “parte” del capitale fisso (presentandosi quindi, se volete, come “soggetto macchinico”) e di una continua “relativa” capacità di organizzare le reti lavorative sociali.
Questo paradosso e questa contraddizione contrappongono in maniera violentissima il “capitale costante” (nella sua forma finanziaria) e il “capitale variabile” (nella forma ibrida che assume avendo incorporato “capitale fisso”) – e quindi tendenzialmente implementa la verticalizzazione del comando e la rottura delle strutture rappresentative dello Stato di diritto.
Una seconda contraddizione la verifichiamo quando ci accorgiamo che, a causa di questi processi di appropriazione – da parte dei lavoratori – di frazioni di capitale-fisso, il comando capitalistico da un lato si distende e sfrutta la vita dei lavoratori, la società nella sua piena estensione – e quindi si definisce come “biocapitale” –, dall’altro trova difficoltà sempre più insormontabili nel confrontarsi con i “corpi dei lavoratori”.
Qui lo scontro, la contraddizione, l’antagonismo si fissano quando il capitale (nella fase postindustriale, nell’epoca in cui diviene egemone il capitale cognitivo) deve mettere direttamente in produzione i corpi umani facendoli diventare macchine singolari, non più semplicemente sussumendoli come merce-lavoro. Così (nei nuovi processi di produzione) sempre più efficacemente i corpi si specializzano e conquistano autonomia sicché, attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si sviluppa sempre più espressamente la richiesta di una “produzione dell’uomo per l’uomo”, cioè per la macchina vivente “uomo”.
In effetti, nel momento in cui il lavoratore si riappropria di una parte del “capitale fisso” e si presenta, in maniera variabile, spesso caotica, come attore cooperante nei processi di valorizzazione, come “soggetto precario” ma “autonomo” della valorizzazione del capitale, si dà una completa inversione nella funzione del lavoro rispetto al capitale: il lavoratore non è più solo lo strumento che il capitale usa per conquistare la natura – che vuol dire banalmente produrre merci; ma il lavoratore, avendo incorporato lo strumento, essendosi metamorfosato dal punto di vista antropologico, riconquista “valore d’uso”, agisce macchinicamente, in un’alterità ed autonomia dal capitale, che vogliono divenire complete. Tra questa tendenza oggettiva e i dispositivi pratici di costituzione di questo lavoratore macchinico, si colloca quella “lotta di classe” che ormai possiamo chiamare “biopolitica”.

6.  Questi paradossi restano irrisolti nell’azione del capitale. Di conseguenza, quanto più la resistenza diviene forte, tanto più diventa duro il tentativo di restaurazione del potere da parte dello Stato. Ogni resistenza viene quindi condannata come esercizio illegale di contropotere, ogni manifestazione di rivolta viene definita devastazione e saccheggio. Ulteriore paradosso – ma questa volta è pura mistificazione – nell’esercitare il massimo di violenza, il capitale ed il suo Stato hanno la necessità di mostrarsi come figura inevitabile e neutra: il massimo della violenza è esercitato da strumenti e/o da organi “tecnici”. “Non c’è alternativa”, proclamava la Thatcher. Capite allora qui che, in nome di questo inevitabile comando (razionale nella logica capitalista), la tecnologia sopravanzi la vita in forme estreme, non per ciò meno tipiche e generalizzabili. Caratteristico è il caso dello “stato nucleare”: in questo modello la tecnologia si pone come garanzia forzosa della sovranità, come ricatto permanente del potere pubblico contro qualsiasi forza o movimento (soprattutto nella politica interna) che voglia o possa imporsi al “legittimo sovrano”. Sono probabilmente questi i fenomeni che estremizzano il rapporto di capitale e determinano la crisi della democrazia anche come semplice forma di controllo social-democratico dello sviluppo.
“Stato nucleare” è infatti quello che vuole imporre l’”eccezione” sovrana in termini fisici e plasmare l’autonomia “del politico statale” dentro un’insormontabile figura tecnologica, come garanzia del predominio del capitalismo e dell’impossibilità di andar oltre. Qui la sovranità moderna si fa definitivamente “biopotere”. Non si rinnova, attraverso il “potere terribile” dello “Stato nucleare”, attraverso la funzione tecnologica, quella tradizione di potere del sovrano che, nella storia, tanto ha caratterizzato la tradizione dell’assolutismo?
In quest’ultimo caso, lo Stato nucleare, il limite del capitalismo è dato – è la catastrofe medesima della vita. Ma si tratta di un caso estremo – non ontologicamente necessario anche se logicamente possibile. Questa dimensione catastrofica alletta gli spiriti reazionari: Heidegger ha potuto, su questa traccia, estendere alla vita intera il pericolo atomico, generalizzare gli effetti della tecnologia nucleare nello stesso concetto di tecnica. Noi consideriamo che la potenza della vita e la gioia della libertà possano evitarci queste trascendentali minacce. Ad esse opponiamo ontologiche resistenze, strappiamo la tecnologia dalle mani del capitale, la incorporiamo non come abito di schiavi ma come strumento corporeo di emancipazione.
7.  Qual è dunque il limite del capitale? Esso sta sempre nel luogo soggettivo nel quale lo sfruttamento del lavoro è rotto e la schiavitù della proprietà privata e della signoria monetaria è tolta – nel luogo nel quale ci riappropriamo non solo delle tecnologie ma del comando su di esse. E poiché le tecnologie sono protesi dell’umano, il problema è quello di rendere la tecnologia protesi della nostra resistenza, della nostra rivolta ed umanità. È nella costruzione del “comune” che noi ci riappropriamo delle tecnologie e diveniamo potenti – il processo storico dello sviluppo capitalistico (nel momento stesso nel quale ha innalzato – nella forma finanziaria – il potere capitalistico ad una esagerata e vuota trascendenza) ha permesso una trasformazione antropologica che va nel senso di una singolarizzazione cooperativa. Non di un processo di individualizzazione di soggetti possessivi ma di una proliferazione di singolarità cooperative. Intensità tecnologiche, densità cooperative, qualità singolari sono il prodotto di e producono nuove figure antropologiche. Il comune non è un compatto organico ma un insieme cooperativo di singolarità. Qui riconosciamo il luogo soggettivo nel quale si pone il limite del capitalismo poiché qui si pone l’intransitività di quel rapporto che definiva il capitale stesso.
Guardando tuttavia al processo che fin qui abbiamo descritto, dal punto di vista di quei filosofi che abbiamo stigmatizzato per aver essi espresso una critica idealistica e morale del rapporto di capitale, si potrebbe obiettare: ma quale singolarità potrà mai darsi, quale limite potrà mai porsi se esso è prodotto in maniera tanto impura, se esso in particolare si è sporcato attraverso la riappropriazione di capitale-fisso? Bisogna dirlo chiaro, rispondendo a queste obiezioni: non c’è liberazione, non c’è soggettività che non sia completamente carica di storicità ed immersa nella violenza del rapporto di capitale. Non c’è luogo dove l’umanità possa ingenuamente o disperatamente ricomporsi o riscattarsi. L’ “uomo universale” che interpretava l’idea del comune? Ma dove mai lo troveremo più dopo la catastrofe del “socialismo reale”? Oppure l’uomo nudo? Ma l’uomo nudo è solo un colmo dell’abiezione, che il potere ha prodotto, cui ogni dignità ontologica è tolta. Il ribelle, il resistente, l’uomo etico è sempre sporco quanto lo era il filosofo cinico (ci ricorda Foucault) e si fa carico della storicità intera. In che cosa consiste allora quel processo di appropriazione che arma la soggettività? Consiste nel far proprie, nell’afferrare, nel rendere protesi corporee e mentali, linguistiche e affettive, cioè nel ricondurre alla propria singolarità alcune capacità che prima erano solo riconosciute proprie delle macchine con le quali si lavorava, e nell’incorporare queste caratteristiche macchiniche, farne attitudini e comportamenti primari dell’attività dei soggetti lavorativi. Nel distacco stabilitosi fra i due soggetti del rapporto di capitale (il padrone e il lavoratore) si dà, da parte delle singolarità, una riappropriazione di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale.
Ora, ogni riappropriazione è destituzione del comando capitalistico. Questo processo di appropriazione, soprattutto quello condotto da parte dei lavoratori immateriali – oggi maggioritari nei processi di valorizzazione –  è infatti molto forte, efficace nel suo svilupparsi – esso determina crisi. Ma non si darebbe crisi se considerassimo che essa nasce spontaneamente dai processi di riappropriazione e di destituzione. Non è così. La crisi ha bisogno di uno scontro, di una realtà politica che si muova per la distruzione non più semplicemente del rapporto di sfruttamento ma della condizione forzosa che lo sostiene. In effetti quando si parla di riappropriazione da parte del soggetto antagonista, non si parla semplicemente della modificazione della qualità della forza-lavoro (che deriva dall’assorbimento di porzioni di capitale fisso), si parla essenzialmente della riappropriazione di quella cooperazione che nella ristrutturazione capitalista della produzione era stata incentivata e poi espropriata – e che rappresenta il dramma essenziale di questa fase critica. Quando si dice recupero di capitale fisso, riappropriazione – lungi dall’esprimersi in termini macchiati di economicismo – l’analisi entra piuttosto su quel terreno della cooperazione che è oggi regolato in termini biopolitici dal capitale:destituire il capitale di questa funzione significa recuperare alla forza-lavoro autonoma capacità di cooperazione.


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